Quando diventerai un bimbo come noi?

Quando diventerai un bimbo come noi?

Perché Pinocchio, al cinema, è quasi sempre un orrendo fallimento?

Mettendo da parte la Disney con il cartone animato del 1940 — che vince ben due Oscar ed entra diretto nell’immaginario collettivo tanto da rappresentare, per anni, la raffigurazione condivisa del burattino di Collodi — e sorvolando sui pur ottimi prodotti italiani del 1947 (live action diretto da Giannetto Guardone) e del 1971 (animazione di Giuliani Cenci, considerata forse ancora oggi la migliore trasposizione cinematografica del libro), ecco che arriviamo (al netto del decoroso Le straordinarie avventure di Pinocchio del 1996 di Steve Barron) prima a quel Occhiopinocchio (1994) che in qualche modo segnerà per sempre, in negativo, la carriera di Francesco Nuti, e poi a un esito non tanto diverso con il Pinocchio (2002) di Benigni, che traccia un’ombra patetica anacronistica e gerontocratica del burattino di legno, al punto che l’autore toscano tornerà alla regia, ad oggi, solo per un altro (poco riuscito) film.

Ed è significativo, forse, che lo stesso Benigni si ritrovi a vestire i panni, ingombranti ed eccessivi, di Geppetto nel Pinocchio (2019) di Garrone, di cui si può mirabilmente dire, come fa Gervasini, che «è un film che osa l’inosabile in Italia: si misura con il mito attraverso la potenza immaginifica del cinema, in una squisita sintesi tra l’artigianato di un “mastro” regista e la tecnologia all’avanguardia di effetti speciali e make up». Peccato però il film perda la sfida, se lo leggiamo nell’accezione ottocentesca, funebre e necrofila, che Garrone fornisce della parabola di Pinocchio.

Della declinazione di Guillermo del Toro preferirei non parlare, ma è purtroppo necessario, in questo breve excursus, e speriamo almeno utile a rispondere alla domanda che ci angoscia dalla prima riga.

Il Pinocchio (2022) del regista messicano è infatti un surrogato di burattino, adattato a metafore banali e, al netto della totale e criminale mancanza di adesione al libro di Collodi, si rivela una figura definita quasi esclusivamente in maniera para-testuale, come un patchwork di alterità piuttosto stucchevole. Un prodotto talmente contemporaneo da non parlare a nessuno e a tutti, nonostante l’indubbia capacità di del Toro di creare universi.

Ma quindi? Perché è così difficile sciogliere l’enigma di Pinocchio al cinema? Siamo piuttosto certi che Pinocchio, nell’immaginario collettivo, sia (ancora?) l’incarnazione della menzogna; eppure questa oggi appare una certezza, forse, menzognera, se mi passate il gioco di parole. Non mi riferisco a quanto Pinocchio sia frequentato dalla contemporaneità, e viceversa, alludo piuttosto all’intrinseco portato storico e politico tanto del burattino di legno quanto del concetto stesso di menzogna.

Se per Antonio Latella il teatro è «il luogo assoluto della menzogna», tanto che a teatro si può «rendere la verità talmente artificiale da far sembrare verità la menzogna stessa», (restando con Debord) possiamo non solo tranquillamente allargare questo assunto al concetto stesso di spettacolo, ma anche affermare che questo, per il cinema, è quasi uno statuto ontologico in ogni sua dimensione, che sia tecnica, creativa o percettiva (provando per un attimo a dimenticarci di Deleuze).

A maggior ragione, allora, a livello narrativo (concettuale?), le avventure di Pinocchio dovrebbero trovare un dialogo proficuo e agevole con quella meravigliosa macchina dell’inganno che è il cinema. Un po’ come è accaduto e accade per gli zombi — e non paia ozioso questo inciso — zombi che del cinema condividono l’essenza, ossia ne possiedono la stessa natura di soglia: né vivi né morti, o sia vivi che morti, né vero né falso, oppure sia vero che falso. Pinocchio invece, e forse qui si può tentare una prima possibile risposta al quesito che ci attanaglia, è fatto d’altro, e il suo dialogo con il cinema è, appunto, per necessità maggiormente astratto, come succede tra sostanze differenti che si toccano. Non a caso, verrebbe da dire, la trasposizione televisiva di Comencini – per altro ancora un modello – invece funziona.

In questo senso è fondamentale quanto ha detto Daniela Mareschi al Festival della Filosofia di Modena del 2018: la menzogna «ha un ruolo ambivalente, tra mistificazione e smascheramento», ruolo di cui Pinocchio è sintesi completa. Non c’è nessun mito dell’infanzia, nel libro di Collodi, quanto piuttosto una critica agonistica nei confronti della realtà: «Pinocchio è maschera di una verità profonda nel senso che il bambino che dimentica il burattino e lo guarda con sufficienza, come una povera cosa di legno, maschera la verità e rivela la propria natura piccolo borghese, che falsifica», in un processo in cui «il ridicolo deve servire a smascherare tutte le false verità che la cultura produce». Pinocchio allora è in realtà un massacro, è l’accettazione e la celebrazione della normalità e della normalizzazione borghese a discapito della mostruosità, intesa in senso etimologico: monstrum, ossia, in latino, segno divino e prodigio, come già altre volte abbiamo detto. Ma anche, molto più prosaicamente, la sterilizzazione di ogni diversità, di ogni comportamento eccentrico (cioè fuori centro), di ogni pulsione non riducibile alla maggioranza. E qui, forse, a mio modo di vedere, possiamo intuire come del Toro non potesse che fallire nel suo Pinocchio, avendo cesellato l‘ennesima figurina docile e rassicurante di un contesto non perturbante in cui il prodigio è salvifico, quando invece in Collodi è l’esatto contrario: questo mondo accetta i prodigi solo quando non sono più tali. Quella di Pinocchio è una sconfitta.

C’è un altro elemento, a questi connesso, su cui ci porta a riflettere Pietro Piro (nonostante l’opinione per me non condivisibile per la quale Collodi avrebbe introiettato l’oppressione e sarebbe divenuto la voce della legge del più forte). La domanda di Piro, che parte da Pinocchio e poi si estende, è — nella mia semplificazione — violenta: il potere è criticabile? Pinocchio è uno scandalo: Geppetto ha un’aspettativa capitalistica, ossia di sfruttamento, rispetto alla sua creatura, la realizza perché «sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali» (Le avventure di Pinocchio. Storia di un burattino, Carlo Collodi, 1831), così che gli permetta di guadagnarsi «un tozzo di pane e un bicchier di vino» (ibidem). Ma Pinocchio, ancora prima di nascere completamente, non è riducibile a questo funzionalismo, non vuole servire a qualcosa, e allora, appena può, corre, salta, è insolente, ride, si sottrae, è in movimento, ché, alla fine, a lui interessa «mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina alla sera la vita del vagabondo» (ibidem). Pinocchio vuole vivere e basta, vuole desiderare e basta, senza colpe, giudizi, senza castrazioni, senza sovrastrutture. Perciò Pinocchio è immorale, perciò Pinocchio è scandaloso, e perciò verrà educato con la paura e la violenza, attraverso l’esercizio della forza da parte dell’ordine costituito, per negare infanzia e libertà.

E alla fine? Alla fine Pinocchio, che guarda le proprie spoglie, la propria reliquia (ciò che resta di qualcosa, etimologicamente), che è diventato bambino, che è passato attraverso la morale minacciosa del Grillo parlante, è un essere felice? Ora che è diventato un borghese rispettabile, un onesto lavoratore, ora che, per dirla con Kubrick, ha messo giudizio, è realizzato? È la buona educazione degli oppressi, direbbe Wolf Bukowski, è la storia del decoro e della sicurezza, rispetto ai quali «c’è una sorta di necessario lavoro propedeutico (…), ed è quello mirato alla cancellazione della riconoscibilità delle classi sociali» (La buona educazione degli oppressi. Piccola storia del decoro, Wolf Bukoski, Edizioni Alegre, 2019). Pinocchio è fallimento e accusa.

Se allora probabilmente il prodotto Disney funziona perché si colloca totalmente e ciecamente altrove rispetto a qualsiasi anche solo pallida raffigurazione di questo portato, spogliando la figura del burattino e riducendola a mera icona, ecco che — nonostante il cinema, in potenza, possa disvelare la realtà attraverso la menzogna — il resto cinematografico italico forse ha subìto l’impossibilità della sintesi, ha scontato l’incapacità della contemporaneità di immaginare altri mondi possibili e di rappresentare il conflitto, nella pace terrificante del presente, accentando la maschera come puro simulacro o assumendo la sconfitta, come fa Garrone, irrimediabile e tombale, esiziale, alla fine, suggerendo un paese, l’Italia, culturalmente e socialmente immoto, congelato nell’incapacità di pensare lo scontro.

O forse, più semplicemente, come in quelle bugie che sono più vere della verità, dovremmo ricordarci «che i ragazzi che vogliono fare di loro capriccio e a modo loro, prima o poi se ne pentono», come ci ammonisce il Grillo parlante. 

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