Gli elementi del disastro

Gli elementi del disastro

Potremmo tracciare la storia del cinema catastrofico dai suoi albori a oggi e ritrovare una lunga serie di connessioni dirette tra i film appartenenti al genere e il periodo storico e le contingenze politiche e sociali coeve.

È però anche possibile ritrovare alcuni elementi ricorrenti e costanti, con le debite eccezioni, in grado ovviamente di sfumarsi e modificarsi in ragione di eventi storici di particolare portata, ricorrenze che non solo determinano il genere ma ci forniscono una mappa di senso ampia, in grado di permetterci di leggere in trasparenza non solo il contesto ma anche la pulsione umana che ne sta alla base, sostanzialmente da sempre, sostanzialmente immutata.

Il cinema della catastrofe ha in sé una quantità robusta di declinazioni e di possibilità, ma ciascuna condivide con le altre — o almeno lo faceva fino a poco tempo fa — un decalogo irrinunciabile, ben dettagliato da Davide Pulici, nel dossier di Nocturno del giugno 2004 dal titolo Apocalypse films. Guida al cinema catastrofico:

  1. Le catastrofi possono essere naturali o procurate dall’uomo. Mostri, alieni o esseri sovrannaturali sono esclusi dal novero del genere.
  2. La catastrofe può essere globale e riguardare tutta l’umanità o, più spesso, essere circoscritta nello spazio e ripercuotersi solo su un nucleo limitato di persone;
  3. Le catastrofi naturali tendono a presentarsi in forma complessa, coinvolgendo altri regni elementari oltre a quello che le genera, come accade nella realtà (…).
  4. Il manifestarsi della catastrofe avviene per gradi, secondo una scala ascensionale (climax) che dai prodromi continua in avvisaglie sparse e giunge quindi alla pienezza del fenomeno;
  5. La catastrofe è un evento contro il quale non ci si può opporre e che non si può arrestare. Derogano parzialmente a questa norma incendi e meteoriti;
  6. Gli effetti della catastrofe devono essere mostrati senza reticenze;
  7. L’evento catastrofico ha una funzione morale, ristabilendo nel disordine fisico, un superiore ordine di valori;
  8. La catastrofe è limitata nel tempo, ha un inizio e una fine;
  9. Nel cast dei catastrofici devono essere necessariamente comprese alcune vecchie glorie hollywoodiane;
  10. Il catastrofico deve culminare in un lieto fine.

Un decalogo quindi integrato da Mario Bonanno, nel numero di aprile del 2019 de Il Foglio Letterario, I film dell’apocalisse:

«Il cinema dell’apocalisse risulta insomma governato da denominatori comuni che ne dettano le costanti:

  • protagonisti introdotti attraverso situazioni-stereotipo che ne anticipano ruolo (poliziotto, scienziato, pilota di jumbo, ecc.) e tratti psicologici;
  • personaggi secondari dotati di caratteristiche facilmente riconoscibili (attempati signori/e predestinati all’immolazione, uomini senza scrupoli dai molti scheletri negli armadi, bambini immancabilmente curiosi o piantagrane, ecc.);
  • climax della vicenda anticipato da una serie crescente di segnali prodromi dell’evento catastrofico/disastroso (scosse telluriche, scintille, comandi difettosi, primo manifestarsi del mostro ecc.);
  • plot in evoluzione secondo la regola “condizione di normalità alterata da un accadimento imprevisto e disastroso”;
  • impiego massiccio e spettacolare di effetti speciali (come il sensurround che in Terremoto e in Rollercoaster il grande brivido consente allo spettatore di trovarsi, acusticamente, al centro dell’azione del film);
  • (com)presenza di attori e attrici di grande richiamo (Paul Newman, Charlton Heston, Henry Fonda, Richard Harris, Richard Widmark, per citarne soltanto alcuni, si sono tutti cimentati col cinema dell’apocalisse);
  • happy end funzionale alla catarsi e all’esorcismo della paura»

Perdonerete questa introduzione lunga e forse didascalica, ma ci è necessaria perché sia chiaro il quadro d’insieme, prima di isolare la porzione di questo genere che ci interessa, quella che dialoga con il Potere e con l’uso dell’emergenza come elemento di controllo.

Prima però è necessario sottolineare come questo filone di narrazione audiovisuale abbia alla sua base, in ogni frangente, un elemento ancora più costante, corredo di una fascinazione per l’atto distruttivo che quello creativo non è in grado di esercitare: il futuro appartiene solo alla morte.

E se la morte è la grande paura, nonché la grande ebbrezza di sopravvivenza, ché «il fulmine si è schiantato altrove anche stavolta, che ancora non è toccato a noi» (Davide Pulici, 2004), cosa meglio della grande paura può essere funzionale al Potere per esercitare il controllo e convincerci a rinunciare al conflitto? Soprattutto nel momento in cui, nel cinema catastrofico, il disastro è, spesso, trasfigurato in una sorta di punizione — irresistibile, divina, naturale, animale — per la tracotanza dell’essere umano, peggiorata e aggravata dalla volontà di non rendersi conto dei sintomi dell’imminente castigo.

«La natura – umiliata e offesa – si ribella, liberando in toto il suo potenziale distruttivo. Il mare e la terra si rivoltano all’uomo. La montagna lo investe. Soffiano venti dalla forza devastante. Dall’universo piovono meteore vaste quanto un continente. Le grandi aree urbane, degenerate in Gomorre ultra-industrializzate, sono il bersaglio prediletto da una Grande Madre vendicatrice, longa manu di un Dio implacabile. Che non perdona.» (Marco Bonanno, 2019)

In questo senso i disaster movies sono di sicuro prodotti moralistici — forse populisti, diremmo oggi che non riusciamo a distinguere la democrazia dall’esercizio del consenso — nonostante intrattengano con il Potere una relazione a tratti ambigua e spesso strettamente significata in relazione al periodo storico in cui vengono prodotti. Non a caso, negli anni ’70 e ’80, anni di grazia per il genere, il denaro, che qui adesso vogliamo intendere come trasfigurazione del Potere, non mette al riparo dalla furia del disastro, anzi: i ricchi e i potenti sono nel mirino dell’Apocalisse

Ne L’inferno di cristallo (The Towering Inferno, John Guillermin, 1974), a cui dobbiamo una buona parte della categorizzazione, scopriamo che il costruttore del gioiello architettonico in fiamme ha risparmiato per avidità sui materiali e così morirà da vigliacco.

In Valanga (Avalanche, Corey Allen, 1978) muore l’affarista senza scrupoli che ha costruito, nonostante gli avvertimenti, l’impianto sciistico in una zona rischiosa, non curandosi né dei pericoli né delle norme.

In Uragano (Hurricane, Jan Troell, 1979) ad annegare, ucciso dal cataclisma, è l’ingiusto, severo e ottuso governatore americano dell’isola Alaya, che gestisce in conflitto con i nativi.

Sono anni, apparentemente, di tensioni riequilibrartici in cui il Bene trova spazio di agibilità e i malvagi raramente vengono risparmiati, a meno che non si ravvedano, in un’ottica manichea che ristabilisce le gerarchie morali e che vede gli eroi raggiungere la salvezza, mentre agli antagonisti non resta che la morte o la sconfitta. Il conflitto in un certo senso viene esteriormente ricomposto e si afferma un superiore codice etico, o almeno lo si mostra.

Possiamo dire che il cinema catastrofico contemporaneo non muti radicalmente queste radici, quanto piuttosto ne esasperi, nel rapporto con il potere, la dimensione formale. Se il conflitto infatti è risolto nella catastrofe, allora significa che non è ricomposto in termini sociali o di collettività quanto piuttosto in termini di punizione individuale. La sostanza del mondo non cambia, in un ciclico ripetersi di potenti che ignorano i segni della prossimità del disastro sostituiti dopo l’epifania dell’apocalisse da altri potenti in grado di dimenticare e ignorare nuovamente i sintomi della catastrofe. Gli eroi e le eroine continuano a urlare il loro allarme, a raccomandare e a consigliare, divenendo sempre meno “persone comuni” nel corso del tempo e sempre più “esperti del settore”, condividendo però l’incapacità o l’impossibilità di farsi ascoltare e di dettare regole. Sono eroi ed eroine che raggiungono la salvezza, a cui è demandata addirittura la capacità di salvare il mondo dalla fine, ma senza che questo alla fine sia un atto in grado di cambiare il mondo che salveranno.

Il codice etico superiore vince ma circoscrive la sua vittoria al momento dell’emergenza e al suo superamento, mentre i politici continueranno a passeggiare sulle macerie per ricostruire le condizioni per un nuovo trauma o negheranno le responsabilità sistemiche addossandole, in un percorso dall’alto verso il basso, alla cittadinanza, agli allarmisti stessi, ai comportamenti dissidenti, annullando il conflitto. Pagheranno, certo, ma, come detto, lo faranno a livello individuale, personale, con il conflitto che esploderà nel manifestarsi della catastrofe, ma senza riscatto sociale, senza che questo coinvolga il sistema. Anzi, finiranno — i potenti intesi come categoria, a questo punto — per costruire ulteriore consenso ed esercitare il proprio privilegio, qui — se resterà un qui — o altrove, se ci sarà un altrove da abitare.

Ed è forse questa, la migliore sintesi dell’apocalisse

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