La ri-organizzazione del potere post-apocalittico: The Walking Dead e il potere della paura

La ri-organizzazione del potere post-apocalittico: The Walking Dead e il potere della paura

C’è chi domina e chi soccombe. Chi vive a testa alta in superficie e chi scorre a capo chino sottotraccia. Chi sopra, chi sotto. Chi dentro e chi fuori. È possibile cogliere l’essenza del nostro tempo senza domandarsi chi in questo momento è al comando?

Come si conquista il potere, come lo si conserva saldamente tra le mani e perché vi si rinuncia, e soprattutto in nome di quale valore più grande si è disposti a soccombere?

Qualsiasi comunità politica si riconosce in un qualche suo aspetto primitivo, in una qualche sua forma di ritualità, di sistemica caccia alle streghe che le consente di riaffermare la coesione dei propri membri e ridefinire i confini del cerchio: al suo interno chi si conforma, chi brandisce la spada contro il comune nemico, e fuori chi si dissocia, l’estraneo da temere.  “Afferratelo – prendetelo – uccidetelo”. È così che si rende la collettività solida: barattando obbedienza con protezione.

Una lucida lettura del potere e delle sue ri-definizioni ci viene suggerita dalla letteratura cinematografica seriale post-apocalittica. Le nostre finestre sul mondo attivabili on demand potrebbero averci raccontato molto di più di quanto fossero intenzionate a fare. Probabilmente non siamo ancora del tutto preparati ad affrontare un’invasione zombie, eppure Rick Grimes ci ha detto molto su come chi manovra i fili intende riaffermare giorno dopo giorno la sua supremazia. “The Walking Dead” ci racconta di democrazia, autorità, dominio, tutela dello Stato e legittimazione della violenza. La catastrofe non è il punto focale della storia. Le istituzioni sono già crollate. Tutto è allarme, pericolo, urgenza. Nell’emergenza non vi è altro che l’emergenza stessa, per questo essa è propedeutica alla sopraffazione.

Ciò che di grande accade all’uomo accade quando egli è libero dalle catene della sopravvivenza. Fintanto che si ha fame, fintanto che si ha paura, si rincorre la stabilità, la sicurezza, si legittima il potere, in tutte le sue declinazioni.

I protagonisti di TWD devono riscrivere le regole del vivere civile e sono costretti a ricostruire una morale in un mondo in cui scienza, natura, religione e autorità sembrano non avere più alcuna risposta da offrire. Privi di un senso preconfezionato da attribuire alla realtà in cui vivono, fanno i conti con la loro coscienza più intima, sperimentando ogni forma di organizzazione del potere appaia funzionale alle loro urgenti inedite necessità di sicurezza e speranza.

L’apocalittico risveglio dei morti squarcia la realtà sino a quel momento conosciuta, lasciando una voragine in cui è necessario si insinui un nuova forma di potere.

Il mondo post-apocalittico è un territorio ostile, un’esperienza di frontiera, una terra di conquista. Quando approdano alla fattoria di Hershel, i sopravvissuti del gruppo di Rick sembrano reincarnare le figure dei pionieri americani. Tutta la serie richiama continuamente l’epopea dei primi immigrati europei nel Nuovo Mondo. Per i pionieri erano le tribù indiane ostili a essere di intralcio. Per i sopravvissuti i pericoli sono incarnati dai “vaganti” e dagli altri gruppi di sopravvissuti.

La ricerca di risorse fondamentali per la sopravvivenza dei padri fondatori coincide perfettamente con il tentativo dei protagonisti di TWD di procacciarsi provviste, farmaci, armi e munizioni. Ma quale esempio passato rievocare per la ri-definizione delle regole nello Stato d’emergenza?

La serie richiama eventi e personaggi facenti parte il processo di costruzione propri della supremazia economico-politica a stelle e strisce. Mentre la popolazione americana si trasforma progressivamente in un’orda di morti viventi, chi sopravvive deve fare i conti con il peso della leadership, con i bisogni dell’individuo, con l’uso e l’abuso delle armi, con la pena di morte, con la difficile gestione della democrazia, con la violenza del totalitarismo, con la brutale lotta per le risorse, con il fardello della colpa.

I riferimenti a molti dei momenti di costruzione dello Stato americano sono particolarmente interessanti in una serie che mette in scena proprio il collasso dello Stato stesso, delle sue istituzioni e, in primo luogo, del cosiddetto “monopolio della violenza legale” incarnato perfettamente dal protagonista, un poliziotto che solo gradualmente capirà di avere perso il ruolo di “tutore dell’ordine”.

L’ordine è stato sostituito dal caos e dallo Stato centralizzato, si regredisce a tanti territori auto-governati: la Prigione, Woodbury, Terminus, Alexandria, Hilltop, il Regno, i Salvatori.

Il mondo post-apocalittico sembra un ritorno a uno stato di natura, quel caos primordiale, domabile secondo Hobbes solo ricorrendo al “bestiale” Stato centralizzato che confisca le libertà individuali in cambio di protezione. Ma nelle comunità di sopravvissuti il potere è saldamente costretto tra le dita di pochi individui (Rick, il Governatore, Negan e la fedele e brutale “Lucille”, il pusillanime Gregory di Hilltop, Deanna Monroe ad Alexandria). Un vero ritorno all’organizzazione di tipo feudale. Si giunge persino alla restaurazione di antiche monarchie nel Regno di Ezekiel, il cui potere è avvalorato dalla presenza di un’esotica tigre accovacciata ai piedi del suo trono.

I morti sono tornati per addentare la carotide della presunzione umana che ha creduto di avere il controllo. E ora che imperversa il caos, il discernimento abdica in favore di forme di governo violente e inique.

Emblematico è il personaggio di Negan. Spietato, accompagnato da un fischiettare raggelante, quasi a rievocare una marcia della morte degna dei più brutali totalitarismi, non si fa scrupoli a uccidere e punire per mantenere l’ordine ristabilito. Il suo potere è assoluto, schiacciante, incontrastabile. Esso si avvale di simboli, come il macabro scettro Lucille, una mazza avvolta nel filo spinato, e sa consolidarsi con lo sfruttamento e l’estorsione. Il suo “Nuovo Ordine Mondiale” è alle porte: si tratta di un potere organizzato, strutturato, che sa gestire le informazioni capillarmente.

E mentre lo Stato d’emergenza lascia spazio al “Nuovo Ordine Mondiale” che rende irrimediabilmente schiavi, qualcuno continua a liberare il proprio cortiletto dalle erbacce, finendo quasi per non accorgersi che fuori dal cancello qualche zombie brama il suo sangue. È il caso della comunità di Alexandria. Qui la catastrofe è respinta, rifiutata, mantenuta a distanza. Per non vedere che fuori il mondo muore si preferisce alimentarsi di finzione, confidando in un potere immobile a causa dell’eccessivo burocratismo.

Dunque è possibile sottomettersi alla brutalità di Negan o soccombere a causa di un governo inadeguato come quello di Alexandria. Ma cosa resta della democrazia?

Il protagonista di TWD, il vice sceriffo Rick Grimes, non sceglie di diventare leader. È la sua divisa a predisporlo al comando e alla responsabilità. Così come gli Stati Uniti d’America hanno rivestito il compito di “poliziotto mondiale” e “esportato democrazia” perché qualcuno doveva ben farlo, ecco che Grimes sembra essere investito del dovere di combattere assolutismi e prepotenze quasi fosse un prescelto.

A Woodbury Rick incontra uno dei suoi antagonisti più accaniti. Il Governatore è a capo di un territorio che ha tutte le sembianze di uno stato totalitario: una città fortificata, un leader carismatico, la brama di espansione e conquista, una dichiarazione di guerra in piena regola alla comunità capeggiata dal “difensore dell’ordine democratico” Grimes. Si rievoca così il Lebensraum hitleriano e l’aggressività nella politica estera della Germania nazista. Il Governatore plasma la paura dei suoi mutandola in fedeltà. A Woodbury si finge di non sapere che il “benessere” è il frutto delle razzie a danno di altre comunità di sopravvissuti. In questo caso si legittima la sopraffazione per vigliaccheria e utilità.

Il Potere cambia forma, vesti e sembianze, ma chiunque lo detiene conosce le nostre paure. Da sempre. La paura non è tanto un istinto naturale dell’uomo, quanto l’ardente desiderio di aggregazione che smania di essere appagato. La paura partorisce il potere così come il potere costituito, sapendo di non poter più fare a meno del suo impulso creatore, continua a generare allarmi e sospetti per essere riconfermato. Eppure proprio la paura, se non controllata prudentemente dal potere costituito, potrebbe causare ammutinamenti e insurrezioni.

Il potere fa paura perché il potere ha paura. Per questo appare più che mai interessante di questi tempi domandarsi: quali sono le condizioni perfette per la consolidazione del potere? A quali latitudine prospera? Quale clima sociale annichilisce la sommossa?

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