Io ti salverò

Io ti salverò

Io ti salverò è un film storicamente affrontato secondo un duplice movimento, e contraddittorio. Se da una parte sosta spesso nelle strettoie di una scarsa considerazione, per cui è di frequente gestito come un Hitchcock minore, poco riuscito e poco convincente, dall’altro, in maniera altrettanto reiterata, è non solo catalogato come uno dei suoi maggiori capolavori, per quanto eventualmente misconosciuto, ma persino ricordato come uno dei suoi maggiori successi di pubblico, nonostante non appartenga all’età d’oro del maestro britannico.

Lo stesso Hitchcock, parlandone con Truffaut, ebbe modo di dire che la pellicola era «solo un’altra storia di caccia all’uomo avvolta nella pseudo-psicoanalisi». E lo stesso regista francese, sempre ne Il cinema secondo Hitchcock, nonostante il riconoscimento della presenza di momenti memorabili, non risparmia critiche profonde al film, mettendolo in discussione da molti punti di vista — la sceneggiatura poco convincente, l’eccessiva razionalità, la carenza del film in termini di fantasia, l’uso esagerato di dialoghi, il dominio della logica, la scelta di Gregory Peck — e ottenendo in cambio, da Hitchcock, un sostanziale assenso rispetto alla sua delusione: «Tutto è troppo complicato, e ho trovato le spiegazioni verso la fine molto confuse».

Eppure, come anticipato, anche in questo caso è possibile leggere un doppio movimento: se Truffaut ne era deluso, Rohmer e Chabrol invece adoravano il film, e scrissero, in Hitchcock, che Io ti salverò era «un grande film d’amore» aggiungendo, con termini fortemente inattuali e che però possono spingere la riflessione verso sponde nuove, che «la donna intesa come angelo custode assume il ruolo protettore e materno (…) di confessore e di salvatrice», sottraendo di fatto Ingrid Bergman, non paia contraddittorio, al ruolo di mero oggetto dello sguardo desiderante maschile, trasfigurandola in un personaggio attore del desiderio, e, per quanto lo faccia ancora in maniera sicuramente stereotipata e patriarcale, riesce a ribaltare il movimento del protagonista maschile, che diviene puro oggetto — per quanto per alcuni poco credibile — della pulsione desiderante di Bergman.

Ma non basta, perché Io ti salverò è ricordato in maniera entusiastica per il ritorno al cinema di Salvador Dali, alle cui architetture «nette e affilate» Hitchcock affida una delle sequenze oniriche più famose della storia del cinema, nonostante i tagli massacranti che il produttore David O. Selznick impose sul prodotto finale. Una sequenza esemplare e persino didattica, ma che in molti ricordano più lunga e folgorante di quello che poi, rivedendo il film, si accorgono essere.

Ci sono alcuni elementi, inoltre, che è in qualche modo si mostrano con una certa oggettività, per quanto sempre in una dinamica di movimento. Hitchcock voleva fare il primo film sulla psicanalisi — una pratica che, nel 1945, a qualche anno dalla morte di Freud, non era ancora né pienamente conosciuta né completamente accettata — e c’è riuscito, secondo esigenze e modalità specifiche e soprattutto secondo un dialogo immediato e ovvio tra il regista e alcuni fondamenti del suo cinema, componenti che tornano e si solidificano ulteriormente in Io ti salverò, per poi sciogliersi in alcuni film successivi: la colpa e la confessione, che, come per ogni cattolico che si rispetti, qui trovano pronunciamenti (ir)reali di chiarezza netta e affilata.

Infine, nella sua teatralità, Io ti salverò mette in evidenza come la psicoanalisi non sia in competizione con il cinema, quanto piuttosto sia una sua alleata, addirittura un suo specchio, con dinamiche e processi affini, al netto della rappresentazione stilizzata del processo di accesso all’inconscio che Hitchcock ci propone. Ma se è vero che Io ti salverò alla fine si presenta come una parabola, come un modello che emerge dal disordine della vita anziché esserne solo un frammento, è altrettanto vero che dietro la psicanalisi, di frequente, al cinema, si è celata, come nota Giulio Sangiorgio, «una morale normativa». Ciononostante in Io ti salverò — come poi in Psyco, La donna he visse due volte e Marnie, giusto per citare tre tra i suoi film maggiormente “psicanalitici” — la dinamica del senso di colpa è spesso sviluppata sulla presenza di un salvatore o di una salvatrice animati da pulsioni sessuali sotterranee, in maniera spesso perturbante.

Non a caso, per concludere con un ultimo doppio movimento, lo scioglimento del trauma, attraverso la sua rappresentazione — ché questo fa, Io ti salverò — e la sua agnizione, coincide con lo scioglimento della trama crime del film, un film il cui titolo originale è Spellbound, ossia sotto incantesimo, un incantamento che allude a diverse tracce. Da una parte c’è una macchina da presa che innova i modi di attraversare gli spazi, deformando e simbolizzando, così da frantumare le convenzioni e rimuovere le certezze interiori dello spettatore, che si specchia nel trauma, dall’altro c’è Ingrid Bergman che dice: «Dovete credere, non a quello che dico ma a quello che sento. La mente non è tutto; il cuore vede più lontano, a volte». Amore salvifico e inesplorabile o simulacro, inganno e stereotipo?

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