Corpo e nevrosi nel cinema di Nanni Moretti

Corpo e nevrosi nel cinema di Nanni Moretti

Il cinema di Nanni Moretti è intriso di riferimenti al corpo. Moretti trasforma infatti se stesso in messaggio, la persona in veicolo, l’essere in conduttore di ideali e nevrosi. Soprattutto quando le idee non si avverano o perdono significato, di fronte a grandi eventi della storia e profonde vicende personali. 

Nanni Moretti esce, come riferimenti culturali e storici, dalle lotte del ’68, diventate poi base per tutti gli scontri ideologici, politici e sociali degli anni successivi, fino ad arrivare alle rivoluzioni situazioniste del ’77, affossate dalla repressione e dal dilagare dell’eroina. Un periodo storico in cui la generazione rivoluzionaria, falcidiata dal mancato completo avverarsi di quegli ideali socialdemocratici paventati nel decennio precedente, si ritrova a dover fare i conti con i demoni di quello che potrebbe essere, ma non è. Con una società ancora in mano ai padri e figlia, se non epigone, dei valori controrivoluzionari della vecchia società pre ’68 e post-fascista. 

In un contesto del genere il corpo ha un ruolo fondamentale. Con l’avvento della scuola di Francoforte prima, e degli studi securitari poi, con le lotte politiche dell’ondata femminista e i raggiungimenti referendari su aborto e divorzio, la società mette il corpo al centro della discussione. Ne sono testimonianza le varie forme in cui il corpo diventa protagonista: nascono movimenti strutturati, consapevoli di quanto la loro idea della corporalità fosse già parte di un più ampio e diffuso dibattito, conscio e inconscio, interno all’opinione pubblica. Si evolvono così i concetti di corpo, corporalità e spazio nel living theatre di Malina e Beck, con un’idea di persona intesa in una collettività in continua diffusione; Lou Reed e l’eroina sul palco; la cinematografia offensiva del senso del pudore; le battaglie di Marco Pannella. Un corpo che anche nel cinema si libera, con nuovi canoni di bellezza e nuove storie in cui la corporalità si oppone alle storture del dominio delle istituzioni: registi che tramite loro stessi filtrano nevrosi e problemi del loro tempo.

Moretti crea allora un dialogo tra corpo e identità. È Michele Apicella, poi Giulio, a volte è Giovanni o più esplicitamente Nanni, in un continuo gioco di specchi con la realtà e la consapevole, divertente e disperata frantumazione di questi. Il corpo è sempre suo, ma cangiante: il gioco sta nel proporre, o non proporre, elementi reali ed elementi finti, attingendo dal racconto e dalla verità.

In questo senso la filmografia di Nanni Moretti si può dividere in tre macrogruppi: l’età dell’inquietudine (da Io sono un autarchico a Palombella Rossa); l’età del riconoscimento (da Palombella Rossa ad Aprile); l’età della disillusione e della riflessione (da La stanza del figlio a Tre Piani) e il ritorno all’età del riconoscimento con l’ultimo Il sol dell’avvenire

Il primo periodo vede Moretti protagonista di una nevrosi fisicamente evidente, esplicita nelle fattezze dell’attore (la trasformazione in licantropo nel finale di Sogni d’oro) e nelle scene più violente (le risse, gli schiaffi, le botte), intrise di un nervosismo sempre presente che solo in alcuni momenti lascia trasparire la leggere e malinconica ironia del Moretti successivo. Poi cade il muro, cadono le ideologie, la sinistra diventa centro (centro) sinistra. E Palombella Rossa è proprio testimone di quel passaggio: la perdita di memoria che vive il protagonista, un funzionario del PCI, è l’espressione fisica di un dissidio personale nei confronti della caduta degli ideali, del vuoto davanti. 

Il Moretti degli anni ’90 apre alla rappresentazione della dimensione privata, delle nostalgie e delle malinconie che lo caratterizzano come uno degli autori italiani più apprezzati per il gusto, questa volta ironicamente nevrotico, di rappresentare se stesso e il Paese. L’età del riconoscimento vede un Moretti scendere a patti con il mondo circostante e il proprio io: Nanni che vuole ballare, fare documentari, il cui nervosismo politico rimane, ma viene diviso con le preoccupazioni per un figlio in arrivo. Come se avvenisse un riconoscimento della propria essenza, delle proprie disillusioni, in quelli che, sembrano, accenni di normalità e distensione. Dove prima stava l’ossessività, ora abita la disillusione. Fino all’ultimo periodo, dove la maturazione si traduce nella riflessione sul lutto, la morte, la perdita. Dove soggetti e sceneggiature lasciano le frantumazioni, l’autoreferenzialità e la metanarrrazione del cinema precedente, con il corpo di Moretti sempre meno presente, e una mente creativa progenitrice di molto cinema venuto negli ultimi quindici anni. Un periodo contestato per l’applicazione di una narrazione molto più canonica nella perdita degli elementi caratteristici dei primi periodi della carriera di Moretti. Il corpo allora è attore, pur sempre filtro di grandi storie umane, come ne La stanza del figlio dove è indubbia la prestanza fisica del personaggio di Giovanni mentre affronta, con la famiglia, il lutto peggiore. Fino ad arrivare, a balzi pindarici, all’ultimo lavoro. Dove sembra essere tornato il Moretti degli anni ’90: disilluso, leggermente arrabbiato, ma comunque malinconico, nostalgico. Forse, rassegnato. 

La rassegnazione non è altro che uno degli stadi dell’inquietudine, è il momento in cui la somma tra disillusione e malinconie porta a una sospensione del giudizio critico, per lasciare spazio a veli di tristezza che cercano di tradurre una realtà così lontana dai valori umani, politici e sociali da cui si è partiti. Da cui Nanni Moretti è partito alla metà degli anni ’70. E allora il suo corpo torna in scena, con tutte le sue storie e i suoi nervosismi. 

Insomma, se il cinema rivoluzionario ha visto tra i suoi interpreti corpi “attivi”, caldi nella loro rappresentazioni di storie corporali forti, esplicite, violente (come Gian Maria Volonté), dall’altra parte è stato testimone, e ne è ancora, di un corpo che non è filtro, ma conduttore. Nanni Moretti infatti non si è mai veramente trasformato, proprio come un materiale conduttore, ma ha avuto l’ardore di far passare attraverso se stesso i piaceri, i dispiaceri, le vittorie e le sconfitte di un certo tipo di uomo di sinistra e di di rivoluzione. Più elegante, più intellettuale, socialdemocratica. Il suo corpo è allora un elemento passivo attraverso il quale passano le storture, le nevrosi, le incompiutezze della generazione post ’68, ancora vittima dei sistemi storti di questo Paese che non sembra cambiare mai. E se non cambia il contesto spaziale, allora al corpo e all’anima non rimane che la nevrosi. 

Ne parliamo insieme giovedì 14 dicembre al Diagonal Loft Club di Forlì nel secondo appuntamento di TraumFabrik.

logo

Related posts

Speciale Berlino: Orso d’Argento a Paul Thomas Anderson

Speciale Berlino: Orso d'Argento a Paul Thomas Anderson

Quando nel 2008 There will be blood (da noi Il Petroliere) vince l’Orso d’Argento per la miglior regia a Berlino, il film è uscito nelle sale statunitensi già da dicembre del 2007, con una prima proiezione di fine settembre al Filmfestival di Austin, in Texas. Alla competizione della Berlinale...

#Venezia80: Hokage – Shadow of Fire, di Shinya Tsukamoto

#Venezia80: Hokage - Shadow of Fire, di Shinya Tsukamoto

Il rapporto di Shinya Tsukamoto con la Mostra del Cinema di Venezia prosegue ormai da più di vent’anni, da quel 2002 in cui la giuria gli assegnò il Premio speciale per quello che resta tutt’oggi uno dei suoi massimi capolavori, ovvero A Snake of June. E’ nota (ma forse non troppo) la...

Tornare a vedere: Avatar 3D di James Cameron, tredici anni dopo in sala.

Tornare a vedere: Avatar 3D di James Cameron, tredici anni dopo in sala.

Qualche giorno dopo essere tornato in sala a rivedere Avatar in 3D mi è capitato di trovarmi in sala a rivedere un’altro film ben diverso, più “vecchio” di quello di James Cameron di almeno una decina di anni e mi riferisco a eXistenZ di David Cronenberg, proiettato alla Cineteca di Bologna in...