“Quarto potere” e la fine del ‘900

Se il ‘900 è stato il secolo del cinema, dell’immagine in movimento, allora il ‘900 è stato il secolo di Orson Welles. Non c’è, al mondo, nella storia, un film più discusso, analizzato, sezionato, studiato di Quarto potere (Citizen Kane, USA, 1941), ossia quel film che è stato in grado sezionare il secolo breve e di dividerlo in due parti ben distinte, segnando un confine che marcherà un prima e un dopo rispetto alla sua uscita.

Al netto delle vicissitudini successive che il genio americano attraverserà, dalle peripezie produttive dei successivi lavori alle agitazioni esistenziali che contraddistingueranno la sua esistenza, l’esordio alla regia, non subito coronato da successo a dire il vero, di un Orson Welles appena venticinquenne è un evento tanto epocale quanto, come vedremo, foriero di sofferenza: Quarto potere rende Welles «l’incarnazione stessa del concetto di autore: a partire da un primo indimenticabile film, una pietra miliare, una sorta di unico perfetto concluso movimento dello sguardo, pietrificato nella storia del cinema»1, rendendolo il vero autore del cinema della modernità (laddove per modernità, non intendiamo un valore prettamente storico, quanto un significato teorico).

Non c’è stato e non c’è ancora un altro film che, come Quarto potere fa dalla seconda metà degli anni ’50, abbia soggiornato con tale persistenza e continuità tanto nelle consacrazioni storiografiche e critiche quanto in quelle più squisitamente classificatorie, consacrato da più parti e per i decenni a venire come il film più bello in assoluto della storia del cinema. Un movimento celebrativo che probabilmente oggi e già forse negli ultimi decenni, a quasi 85 anni dall’uscita di quel prodigio ineguagliabile, ha raggiunto un livello di saturazione definitivamente oltre la soglia, perché il cinema del secondo ‘900, senza Welles e il suo esordio, non sarebbe mai potuto esistere per come lo conosciamo. 

Allora può essere utile ricordare come, in Quarto Potere, Welles introduca una nuova concezione di tempo nel cinema,  attraverso un’esplorazione mai vista prima del passato, strutturato, con sezioni coesistenti in maniera fluida, su incontri narrativi che rappresentano diversi lacerti del passato del protagonista ed evocano intere regioni di virtualità, mantenendo però il passato nella memoria pura anziché trasferirlo in attualità, come fanno invece i flashback. È ciò che farà dire a Deleuze che Quarto potere rappresenta il primo vero esempio di “cinema del tempo”.

È evidenza di ciò il fatto che Welles utilizzi varie innovazioni stilistiche per liberare il tempo in sé nell’immagine cinematografica, creando prospettive in profondità di campo tali da permettere allo sfondo di comunicare con il primo piano e con i livelli intermedi, emancipando la dimensione temporale dalla subordinazione allo spazio. Sempre Deleuze, che pone il regista americano al centro della sua riflessione sul cinema come «potenza del falso», dirà che quella attivata da Welles «più che una funzione di realtà, sarebbe una funzione di memorazione: non proprio un ricordo, ma un invito a ricordare…»2. In questo senso, basti sottolineare come la parola che pronuncia Charles Foster Kane a principio del film, e che rappresenta l’abbrivio di tutto il percorso temporale di Quarto potere, non possa essere ascoltata da nessuno se non da Kane stesso. 

Non è esagerato affermare allora che Welles, dopo il suo esordio, si viene a trovare nella condizione di essere un interlocutore rilevante e all’altezza dei grandi maestri della narrazione letteraria del ventesimo secolo, come Proust e Joyce, che, in precedenza, avevano rivoluzionato, nel loro “campo”, la percezione del tempo nella narrazione. Con Welles il cinema diventa compiuto e compiutamente adulto e si fa forma artistica, diviene disciplina (potenzialmente) autoriale, aprendo prospettive nuove e originali per il cinema, sia stilistiche che visive.

Era tutto chiarissimo ad André Bazin, che conierà proprio per Quarto potere il termine “piano sequenza”, così da poter descrivere le particolari scelte di regia di Welles, per le quali non c’erano allora termini né esistenti né adeguati. Scelte che per lo studioso francese sancivano l’inizio di un nuovo periodo nella storia del cinema, un periodo che ha finito per significare l’intero ‘900 restante e che oggi, forse, ha concluso la sua spinta, probabilmente sotto le macerie delle Torri Gemelle, nel settembre del 2001, quando abbiamo assistito alla fine del postmoderno e probabilmente alla fine delle immagini novecentesche: «Ma la realtà supera veramente la finzione? Se sembra farlo, è perché ne ha assorbito l’energia, divenendo essa stessa finzione», diceva Baudrillard ne “Lo spirito del terrorismo”.

Quarto potere è quindi un film passato o è ancora un film in atto? Da un certo punto di vista il film di Welles, in perenne cambiamento, ci racconta ancora del punto «fino a dove abbia potuto/possa/potrebbe arrivare il cinema»3, e Quarto Potere è ancora per certi aspetti clamorosamente attuale nella sua preveggenza pur così vincolata al periodo storico in cui è stato realizzato. Welles finisce allora per incarnare l’apice di un’era, nel 1940, in cui la fiducia nell’efficacia e nel potenziale innovativo del nuovo medium era probabilmente al suo massimo. In più, nello storia di Charles Foster Kane (che ricalcava la figura di William Randolph Hearst, magnate dei media che non apprezzò granché il film di Welles), non è difficile leggere l’Italia di mezzo secolo dopo, quella berlusconiana, in un movimento in cui è ancora stupefacente rintracciare la modernità profetica dell’opera del regista americano, rispetto anche alle code ultime della parabola del politico di Arcore.

Ma questi elementi sono accidentali, rispetto al percorso che questo numero di BILLY vuole provare a percorrere. La fine delle immagini novecentesche, del loro senso, della loro capacità significante, della loro portata etica, immagini così tanto e così profondamente wellesiane, così portatrici di un’idea di uomo, di mondo, di valori, così moderne, è un fattore che, oltre a rappresentare una frattura, un crepuscolo di dei e idoli, si qualifica anche come elemento strutturante rispetto all’immagine odierna.

Quarto potere è il ‘900, lo abbiamo detto, e il ‘900 è morto. L’immagine contemporanea non dialoga, non riesce a dialogare, con il peso e la sostanza che si porta dietro quella del secolo scorso, un’immagine che a sua volta fatica a sentire la centratissima vacuità e la superficialità splendente dell’immagine attuale, senza che — sia chiaro — ci sia un giudizio di valore, in queste mie parole. La contemporaneità percepisce artificiale l’immagine novecentesca anche quando è mimetica, e sente realistica quella odierna che è invece un’immagine apparentemente molto più “cosmetica”. Giulio Sangiorgio sintetizza in maniera brillante questo movimento dicendo che, oggi, la fiction si è mangiata il reale, e questo comporta, io credo, che ciò che è evidentemente finzionale sia percepito come più reale di ciò che è davvero reale, posto che qualcosa di reale esista ancora, sia nelle forme funzionali sopravvissute che in quelle in grado di intercettare l’esistente.

Ciò che so, una volta preso atto della morte o dell’agonia dell’idea di immagine che mi porto dietro come rudere del ‘900, è che quello che andrebbe fatto è creare, praticare e abitare la crisi, tanto rifuggendo da quella stessa pietrificazione con cui abbiamo aperto questo articolo — da un lato senza indulgere in un fin troppo generico «il cinema non sta morendo, sta solo cambiando, come sempre», per usare le parole rassicuranti di Martin Scorsese, dall’altro senza assolversi nello storicismo — quanto cambiando i modi e gli attrezzi di comprensione dell’immagine contemporanea, che appare sì priva di idee e sostanza, ma che, in quanto immagine, resta viva e si contorce, come resta viva e si contorce quella del secolo scorso, anche quando non riesce a essere compiutamente in atto o può solidificarsi come una possibilità di memoria (introiettata? Automatica come un respiro?).

Trovo allora stimolante quanto dice Dimitri D’Andrea, a questo proposito: «Credo piuttosto che alla crisi dei Weltbilder novecenteschi abbia fatto seguito l’affermazione di una nuova immagine del mondo che chiamo assolutismo dell’io e che costituisce il frame unitario all’interno del quale — sia pure con molte varianti — la soggettività contemporanea delle liberaldemocrazie occidentali pensa se stessa e il mondo. Di più: penso che all’avvento di questa nuova immagine del mondo debba essere attribuita gran parte della responsabilità della crisi e del declino delle grandi narrazioni che hanno segnato il secolo breve»4.

  1. L. Giuliani – G. Placereani, Perché non possiamo non dirci wellesiani, in AA.VV., My Name is Orson Welles. Media, forme, linguaggi, Il Castoro, Milano 2007.
  2. G. Deleuze, Cinema 2: L’immagine-tempo, Einaudi, Torino 2017.
  3. N. Lodato, F. Brignoli, Orson Welles – Quarto potere, Lindau, Milano  2015
  4. Dimitri D’Andrea, Libertarismo ringhioso. Siamo divenuti moderni, Teoria politica, 12 | 2022
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