Il Divin Codino
Regia 2
Soggetto e sceneggiatura 1
Fotografia 1
Cast 2
Colonna sonora 1

“Il tempo invecchia in fretta” scriveva Tabucchi. Una frase che racchiude tutta la nostra implacabile epoca, costruita di un tempo ingannevole. Un’epoca, la nostra, che sentiamo l’urgenza di vivere in fretta, di raccontare rapidamente, di sconfiggere con impazienza. Nella feroce foga di narrare il contemporaneo con la medesima epicità con la quale favoleggiamo le grandi ..

Summary 1.4 insufficiente

Il Divin Codino

“Il tempo invecchia in fretta” scriveva Tabucchi. Una frase che racchiude tutta la nostra implacabile epoca, costruita di un tempo ingannevole. Un’epoca, la nostra, che sentiamo l’urgenza di vivere in fretta, di raccontare rapidamente, di sconfiggere con impazienza. Nella feroce foga di narrare il contemporaneo con la medesima epicità con la quale favoleggiamo le grandi imprese dei tempi andati, abbiamo iniziato a raccontarci per mezzo di biopic di persone straordinariamente contemporanee. Simultanei eroi che incitiamo a salire sul podio frettolosamente, consapevoli che presto saremo sempre noi a disarcionarli dal trono della memoria. 

È quanto sta accedendo con lo sport e i suoi campioni. La narrazione sportiva, rielaborata o documentaristica, funziona, vende, marcia perfettamente allineata con il resto delle produzioni trendizzate disponibili sulle piattaforme on demand. Lo storytelling agonistico esalta l’impresa, assolve dalla prostrazione, glorifica il gesto atletico, la forza, la leggenda. E a noi piace illuderci che lo sport sia in fondo esattamente quello che le docu-serie sono disposte a raccontarci, quello che la fiction è ordinata ad arricchire. Vogliamo credere che ogni ombra possa essere illuminata dalla tenacia dell’atleta, e che ogni vittoria possa debitamente essere ripartita tra i tifosi, spettatori supplichevoli del glorificato bottino. 

Roberto Baggio è stato uno dei più grandi talenti che il calcio italiano abbia conosciuto. Lo schivo ragazzo di Caldogno è uno dei simboli del periodo più splendente del nostro calcio: anni in cui eravamo i più forti del mondo, ma in cui ci è fatalmente mancata la freddezza sul dischetto di un calcio di rigore. Raccontare Roby Baggio con il ricordo ancor ben vivido delle sue progressioni dirette verso la porta, facendo forza su quelle gambe martoriate e allo stesso tempo inarrestabili, è una sfida complessa.

Trovare la giusta distanza per inquadrare un mito del nostro tempo, e raccontarne le increspature rintracciabili sulla patinata superficie, è un’operazione che difficilmente saprà schivare il naufragio in un ricattatorio e nostalgico sensazionalismo emotivo. Il Divin Codino di Letizia Lamartire, prodotto da Fabula Picture e distribuito in streaming sulla piattaforma Netflix, sceglie di preferire l’uomo alla leggenda, l’umanità di un personaggio sfuggente, a tratti inaccessibile, alla fantasia dispensata sul campo da gioco.

Forse perché in fondo l’odore inebriante dell’erba, il sudore, le urla, i cori, le imprecazioni, sono materia impossibile da riprodurre. 

Eppure il calcio al cinema funziona benissimo: difficile poter dimenticare Éric Cantona diventare un angelo custode per il postino tifoso dello United (“Il mio amico Eric” di Ken Loch) o l’ossessione di Paul Ashworth per il suo Arsenal (“Febbre a 90”)Ma in questi casi la telecamera indugia sullo sguardo incantato di qualcuno che sta osservando un quadro bellissimo, evitando di inquadrare il quadro stesso. Perché il calcio al cinema funziona benissimo, ma è totalmente impossibile sceneggiare una partita. Il gioco del pallone è già scomposto in un’infinità di variabili. Fischi, azioni, rimpalli, ripartenze. Inquadrature e montaggio inibirebbero completamente il prodigio del gioco. Lo spettatore che affolla lo stadio vede cose che vengono precluse allo spettatore che assiste al racconto che dell’evento fa la regia cinematografica. Una partita di calcio è una questione composta da troppe imprevedibili elettrizzanti incertezze da poter essere contenuta all’interno di una sceneggiatura. Il calcio al cinema funziona benissimo, ma meglio concentrarsi sull’unità fondamentale del suo gioco, e se proprio non si intende dare spazio al tifoso, che lo si offra al calciatore. 

Il Divin Codino tenta di scansare l’impaccio del calcio ricostruito entro lo schermo; ma il soffocare la carriera di Baggio nei soli passaggi fragili (il trasferimento dal Vicenza alla Fiorentina durante il primo pesante infortunio, il calcio di rigore sbagliato a Pasadena nel ’94, la mancata convocazione nell’Italia di Trapattoni nel 2002) manifesta un imperdonabile ostacolo nel racconto del campione. Il film sembra rifiutarsi di descrivere tutto ciò che ha reso Baggio l’indiscutibile leggenda che è diventato. E questa ostinata negazione del contesto esterno spoglia di ogni incanto la rievocazione delle prodezze di un talento. Per quanto si comprenda facilmente l’intenzione di focalizzare ogni sforzo narrativo sull’uomo, sradicandolo dal piedistallo del mito, risulta insopportabile provare a restituire anche una sola parte della composita personalità di Baggio cancellando con un colpo di spugna le ragioni per cui quel rigore, durante i Mondiali Usa del 1994, era così importante per lui, per noi, per il calcio.

Il Divin Codino è un racconto inconsistente, che auspicando di narrare ciò che era rimasto inespresso finisce per non narrare alcunché. Una fissazione per i dettagli senza contesto e un numero limitatissimo di considerazioni frequentate con insistenza amputano il legame emozionale tra il mondo e il campione, lasciando solo, al centro della scena, Baggio (interpretato da Andrea Arcangeli), con i suoi demoni, la sua determinazione, il suo talento, ma senza applausi. 

In questo tentativo di edificare una narrazione intima e alternativa, la fuga dalla convenzione romantica del ricordo finisce per edificare un racconto che manca nel suo essenziale incarico, quello di restituirci una storia. 

Il calcio è troppo intenso e teatrale per non divenire immediatamente melodramma una volta confinato nello schermo: ogni giocata è definitiva, ogni pallone irrinunciabile, ogni risultato assoluto. Non si può fuggire dall’esaltazione, dall’eccesso, dalla simulazione. Gli spalti resteranno troppo gremiti, i movimenti del pallone troppo variabili, gli imprevisti troppo frequenti per essere normalizzati entro un’inquadratura. Il tempo invecchia in fretta non solo quando ci precipitiamo con indomabile irruenza a idealizzarlo, ma anche quando ci ostiniamo a negare che la narrazione, forse soprattutto quella contemporanea, ha più che mai bisogno del mito.

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