Film d’amore e d’anarchia
Lina Wertmüller non è mai stata molto amata nel nostro paese. Il suo Oscar alla carriera ha fatto storcere il naso a più di un critico, il suo inserimento tra i grandi autori — unica donna — della lista che Roth stila ne La macchia umana, di fianco a Fellini, Kurosawa, Godard, Fassbinder e diversi altri mostri sacri, ha lasciato e lascia ancora stupiti molti lettori, cinefili, appassionati. Lina Wertmüller era — ed è ancora — considerata sostanzialmente una conformista istrionica, simultaneamente elegante nella messa in scena e volgare nei contenuti, con velleità intellettuali dotate di scarso fondamento.
Personalmente, a livello puramente istintivo, ho sempre sentito di concordare con questa percezione del suo cinema, in senso tanto generale quanto rispetto ai singoli episodi. Eppure Lina Wertmüller ha creato film di culto, ha ottenuto riconoscimenti popolari in Italia (dove, ad esempio, Mimì Metallurgico ferito nell’onore fu tra i film più visti nel 1971-72) e premi di grande prestigio (soprattutto) all’estero, se pensiamo ai riconoscimenti a Cannes o allo stesso Oscar.
Di più: Lina Wertmüller ha, nonostante tutto, creato un universo, ha avuto e ha ancora un peso culturale per certi aspetti decis(iv)o, per quanto pop, con il suo cinema fatto di titoli interminabili (che tuttǝ abbiamo parodiato), di duetti ripetuti tra Melato e Giannini, di situazioni grottesche e sbracate, di urla e di rigore scenografico. Quindi? Il solito scollamento a sinistra tra il partito e la base?
Il cinema di Wertmüller, oggi, a distanza di tempo, per qualcuno è invecchiato male, ed è un’ipotesi di cinema considerata legittimamente desueta. Può essere, ma la portata del suo contributo, probabilmente, è da leggere, più che nel valore delle singole opere, nel corpus complessivo del suo cinema, che racconta (di) una figura inconfondibile degli ’60 e ’70. Come dice Roberto Monassero, che pure le preferisce Ferreri: «Il cinema della Wertmüller ha dato il meglio nella stagione dell’impegno civile e del privato come trasfigurazione del politico, in quanto riflessione così seria da farsi grottesca quando non surreale, in cui l’immagine distorta del paese finiva per rivelare la vera anima dei suoi abitanti».
Trovo che questo approccio, nel periodo irripetibile ed esaltante del cinema civile italiano, abbia rappresentato una via alla lotta alternativa ai modelli “dominanti” (maschili? Sicuramente anch’essi spesso, allora, fraintesi) e di straordinario interesse. Da questo punto di vista Film d’amore e d’anarchia — un cult — è una pellicola esemplare. Titolo interminabile, volgarità, grida, barocchismi, situazioni sguaiate, fotografia pazzesca, costumi e scenografia impeccabili, musiche perfette, Melato semplicemente enorme, Giannini ultra-premiato, duetti indimenticabili. Ma c’è di più, perché Wertmüller coglie nel segno in più punti, utilizzando il grottesco come chiave di lettura, laddove il genere svela la contemporaneità (di allora, il 1973, e, come detto, di oggi, come specchio inattuale).
Da un lato c’è il racconto di un paese distrutto, fatto a pezzi dal fascismo, impaurito e corrotto, morente, in un quadro di incredibile attualità, se letto oggi. Da un altro c’è il tratteggio degli ultimi della società, di quelli che non possono fare la Storia, che dalla Storia sono esclusi, degli esseri umani che qualcuno può considerare “residuali” ma che per Errico Malatesta erano eroi ed eroine, della Storia che si fa tale attraverso le storie minime, degli umili che sono motore involontario o conscio, umano e fallibile, del cambiamento. E a corollario di questo ci sono due solitudini che falliscono, che si stanno vicino per trovare, nel massacro e nel disastro, un po’ di amore (e di anarchia), oltre la morte.