Oltre la fine del mondo

Oltre la fine del mondo

L’incapacità dell’essere umano di figurarsi un’eternità dello spazio fisico che abita o, per contro, il desiderio di immaginare che la morte coincida solo con la fine della propria esperienza terrena ha fatto sì che, in maniera piuttosto trasversale, qualsiasi cultura abbia sviluppato una propria mitologia che teorizza o ipotizza, e a in alcuni casi auspica, una fine del mondo e (solo in conseguenza a questo) l’inizio di qualcosa che somiglia all’eternità.

In questo numero non ci addentreremo in una discussione paludosa sulla fine del mondo in termini escatologici (ammesso che abbia ancora senso farlo, oggi), ma cercheremo di rifletterne da un punto di vista antropocentrico laddove la fine del mondo coincide quasi banalmente con un qualcosa di fisico che riguarda una percezione personale di orizzonte e di capacità/volontà di raggiungerlo e oltrepassarlo.

Interrogarsi sulla fine del mondo nell’epoca del postmoderno in cui viene destrutturata, a volte demolita la narrazione classica e in cui il momento in cui tutto diventerà eterno non sembra più una possibilità così remota, ma diventa un’ inesorabile certezza, rischia di diventare un esercizio filosofico inattuale, una questione metafisica che esaurisce la utilità nell’incapacità di trovare una qualsiasi forma di dialogo con il presente e con il reale.

Oggi la “fine del mondo”, e lo stesso concetto kantiano di fine di tutte le cose, soffrono la necessità di essere riarticolati e di spostarsi da un piano strettamente metafisico a uno più  personale, più prossimo, in cui è il nostro orizzonte a (di)segnare un confine e nostra la volontà fare in modo che quel confine non rappresenti un ostacolo, un muro, una fine. 

Oltrepassare quella linea diventa quindi una responsabilità individuale, una ricerca di un personale conflitto che ci spinge a guardare una realtà che si estende al di là del nostro campo visivo in cui albergano rivendicazioni, diritti, speranze e sogni che da quelle barriere che innalziamo sono limitati o imprigionati.   

Abitare un presente in cui un confine non rappresenta più la fine di qualcosa ma diventa uno spazio liminale e transitorio è il modo migliore per spingere quel confine sempre più distante, così distante da raggiungere la fine del mondo e integrarla in un divenire storico sempre in mutazione. Così distante da andare anche oltre la fine del mondo. 

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