The Last of Us – Stagione 2

The Last of Us – Stagione 2

C’è un certo tipo di silenzio che solo la fine del mondo può contenere. Non è assenza di rumore. È la sensazione strana che resta quando tutto ha smesso di valere. Le strade vuote, i vetri infranti, i cartelloni scoloriti — tutto sembra dire: qui c’era qualcosa. Ma adesso non c’è più. Eppure, in quello spazio lasciato aperto dall’apocalisse, qualcosa insiste. Resta. Si ostina.

The Last of Us – Stagione 2 mette in scena un mondo dopo la fine. Ma nel farlo non racconta tanto il crollo quanto quello che viene dopo il crollo: le forme nuove, a volte sbagliate, a volte necessarie, con cui si prova a continuare. E forse è proprio questo il senso dell’apocalisse in questa serie — non una distruzione totale, ma un punto di vista spietato sul presente. Come se togliendo tutto il superfluo, restasse solo ciò che fa davvero male. E ciò che, malgrado tutto, ancora pulsa.

The Last of Us non è una storia di zombie. O almeno, non solo. È una storia d’amore, e di cosa resta dell’amore quando il tempo si disgrega, le città collassano e le regole smettono di esistere. L’amore non come consolazione, ma come urgenza. Non come desiderio, ma come bisogno. Un amore che sa essere feroce, testardo, infantile. A volte sbagliato. Ma sempre necessario.

Joel ed Ellie sono due poli che non si scelgono: si trovano, si respingono, si attirano, si ricostruiscono. E quello che si forma tra loro — lentamente — è una forma di tenerezza ostinata, che non chiede permesso, che non si spiega. Una meteora emotiva che attraversa l’apocalisse e la illumina. Per un attimo. E in quell’attimo tutto sembra avere senso.

Nella seconda stagione, però, tutto si fa più complicato. Le relazioni si sfibrano, i legami si confondono e le motivazioni diventano meno nitide. Ellie si avvicina a Dina, ma la loro storia d’amore, pur centrale nella trama, fatica a incidere. Sembra voler dire qualcosa senza riuscire a dirlo del tutto. E anche il finale, più che chiudere, dissolve. Come se la serie si fosse avvicinata troppo a un punto emotivo incandescente e poi avesse distolto lo sguardo.

Eppure, qualcosa resta. Non nelle scelte narrative, che convincono o meno, ma in quel filo emotivo sotterraneo che attraversa tutta la stagione: la domanda su cosa significhi continuare ad amare quando tutto il resto è perduto.

Parafrasando Žižek, “amare è rompere il mondo”, introdurre un elemento che disturba l’ordine, che rende il sistema instabile. Ellie, Dina, Abby, Joel: ognuno a modo suo lo fa. Non cercano redenzione, ma qualcosa che somigli a un legame. E in un mondo così saturo di rancore, quel gesto, anche minimo, è una deflagrazione.

Byung-Chul Han, invece, ci ricorda che l’amore resiste alla trasparenza. Non è efficienza, non è consumo. Non serve a niente, se non a confermare che siamo ancora vulnerabili. E quindi vivi. Quella fragilità, quella disponibilità all’altro, è forse l’unico spazio che ci resta per non diventare puro meccanismo. La cura, anche quando non convince, è l’ultimo gesto umano possibile.

Alla fine, forse è proprio questo il punto: non tutto tiene. Non tutto torna. The Last of Us 2 non ci dà la catarsi, né la pacificazione. L’amore tra Ellie e Dina si accende e poi si spegne, come una candela dimenticata nel caos. La vendetta non consola. Il perdono non guarisce. Il finale — se lo si può chiamare così — lascia scivolare ogni cosa, come se la narrazione stessa non fosse più in grado di reggere il peso delle sue promesse.

Eppure, qualcosa resta. Non nelle scelte che condividiamo o contestiamo, ma nel modo in cui la serie ci costringe a guardare in faccia il nostro bisogno di senso. Come se ci dicesse che l’amore, quando non salva, almeno ci rovina nel modo giusto. Ci disordina, ci incrina, ci espone. È una forma di sopravvivenza che non si misura in salvezza, ma in residui umani. E forse è proprio questo a renderlo, ancora una volta, filosoficamente necessario: non come risposta, ma come domanda che continua a tormentarci anche quando tutto finisce, o peggio, quando non finisce affatto.

Perché se questo è il nostro presente — e a tratti lo sembra: instabile, precario, sul punto di cedere — allora forse è davvero il momento di chiederci come sopravvivere alle macerie. Non solo quelle esterne, ma anche quelle che ci portiamo dentro. E in questo senso The Last of Us non è una profezia, ma un’epifania rivelata. Un avvertimento e un sussurro. Una meteora che non cade, ma che, pur senza schiantarsi, riesce comunque a lasciare un’ombra.

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