Di post mortem, resurrezioni e felicità

Di post mortem, resurrezioni e felicità

La primavera, per molti fedeli cristiani nel mondo è il periodo per venerare una resurrezione. Questa primavera, anche per noi modesti fedeli dell’indie italiano è stato un momento di resurrezione. Dopo una lunghissima attesa e un periodo di apparente morte artistica è arrivato post mortem, il sorprendente album di resurrezione dei cani. Per moltə di noi, riascoltare finalmente la voce di Contessa è stato come riprendere un dialogo interrotto con un vecchio amico e ricordarci di quanto ci piace ascoltare il suo punto di vista sul mondo. Dopo tanti anni in cui non ci siamo visti, ci sediamo ad ascoltarlo e ci fa una serie di domande accusatorie: “Chi mi ha prima esaltato e poi mi ha tradito? Chi mi ha fatto fare un’altra volta brutta figura? Chi mi ha messo al guinzaglio? Chi mi ha messo paura?”. E la risposta la conosciamo bene: “Io, io, io”. Sempre io. Il protagonista indiscusso del nostro tempo. Il nemico per antonomasia: Io.

Perfetto, è tornato, continua a parlare di sé e di tuttə noi, gli vogliamo bene. 

Pian piano ci prende per mano e ci fa scendere insieme a lui nel buco nero, che non ha mai tentato di schivare. Ci entra. Ci ricorda cosa abbiamo tutti sotto al vestito. E il pericolo per chi si rende conto di cosa c’è davvero è quello di finirci dentro quel buco nero.

Il file rouge di tutto l’album, come preannunciato dal titolo, sembra essere uno: la morte. Ma sarebbe un errore, a mio avviso, considerare post mortem unicamente per la sua potenza introspettiva (comunque indiscussa). post mortem non parla soltanto dell’io e del buio che ogni io vive imprigionato dentro sé. Non rientra nell’attenzione morbosa del nostro tempo per l’ego. Anzi, la scardina completamente, la porta in tribunale e la condanna. La prova più schiacciante che l’album non rimane solo nell’interiorità credo sia data dai riferimenti letterari di cui è intriso, i più evidenti dei quali sono i richiami a Mann e Kafka, in canzoni come davos e felice. Contessa sceglie di parlare del momento storico che stiamo vivendo attraverso due autori che hanno scritto i loro capolavori nei momenti peggiori della storia contemporanea, momenti in cui il mondo stava irrimediabilmente cambiando e scivolando verso il terrore delle guerre mondiali, dei totalitarismi e dell’inferno capitalista

davos è praticamente La montagna incantata di Mann come suonerebbe oggi. Lo scontro interiore tra il progressista e il gesuita e Madame Chauchat, con l’ingegnere che non sa da che parte sta. E l’ingegnere siamo noi e i moderni progressisti e gesuiti sono quelli che vendono Lotta Comunista e quelli che pregano verso la Mecca, quelli che vanno alle Maldive e quelli che vanno in Donbass. E anche oggi, come allora, ognuno dice “così si fa, così si fa”. 

felice è forse una delle canzoni più belle mai scritte da Contessa e richiama due dei personaggi più belli mai scritti in generale: Gregor Samsa e Hanno Buddenbrook. Mentre il primo è giustamente famosissimo e rappresenta l’alienazione del nostro tempo e l’uomo che cessa di esistere quando smette di produrre, il secondo non ha forse la fama che meriterebbe. Hanno Buddenbrook è un ragazzo che ama la musica e il teatro ma è costretto a rispettare le imposizioni sociali che lo vogliono imprenditore e responsabile ultimo della ricchezza della sua famiglia. L’unico modo in cui potrà sfuggire a un destino già scritto e da cui si sente annientato è, appunto, la morte. Contessa usa questi due personaggi tragici per parlare di felicità, dissacrando il concetto stesso di felicità, imperativo martellante e ansiogeno della nostra epoca. Siamo felici come Gregor Samsa sotto il sofà che spia la sorella o come Hanno Buddenbrook che corre a scuola, schiacciato contro il muro per la vergogna e la soggezione. Come loro, siamo figli non voluti del nostro tempo e, come loro, non troviamo spazio in una società che richiede forza, produttività e conformismo. Non ci riguarda quella felicità lì. Entrambi vengono liberati dalla morte, ma da quella morte che, come nel meraviglioso pezzo conclusivo, arriva come un’altra onda, da cui siamo respinti e attratti allo stesso tempo. Questa morte non è un tabù, è parte della vita. Non va ignorata, perché considerarla ci impedisce di gettarci nel vortice insensato e infernale del nasci-lavori-muori. Non pensare alla morte significa consegnare la vita al tritacarne che ci vuole produttivi e basta, sempre, anche nella felicità

Allo stesso tempo, però, bisogna negoziare con Lei, non lasciarle prendere tutto lo spazio, non permettere che impedisca la vita. 

Ne La montagna incantata c’è un’unica frase in corsivo. Una sola frase in più di mille pagine. Scrivere una frase in corsivo in un libro all’inizio del secolo scorso non equivaleva a premere un tasto, come facciamo oggi. Immagino Mann che va da un povero tipografo e gli dice che, di tutte quelle pagine, un’unica frase debba essere stampata in modo diverso. Doveva essere davvero importante per lui e credo racchiuda il senso di questa morte, di cui parla anche Contessa:

Per rispetto alla bontà e all’amore l’uomo ha l’obbligo di non concedere alla morte il dominio sui propri pensieri. 

L’interesse verso la morte e la decadenza non è che un interesse verso la vita e la natura umana. La morte è una lente per mettere a fuoco la vita, per vederne l’essenza. In questo senso, il post mortem è non solo possibile, ma necessario.

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