Dept. Q

Dept. Q

Il seminterrato del nostro scontento

È interessante e significativo, nonostante non sappia ancora bene cosa significhi, che Netflix continui a produrre serie su detective rotti. Forse significa che il trauma è l’unico carburante narrativo rimasto a un’industria che ha esaurito le idee prima ancora di averle. Ma in realtà, chiedo, non è sempre stato così? 

Eppure ci sono stato nove ore, in quel seminterrato di Edimburgo con Carl Morck, a chiedermi se Scott Frank — che ci aveva regalato, lode al suo talento, The Queen’s Gambit — non abbia semplicemente tradotto il manuale Ikea del detective tormentato assemblando i pezzi nell’ordine sbagliato. Di proposito, tra l’altro.

Però, ne sono certo, Dept. Q non è solo l’ennesima serie crime scandinava trapiantata in Scozia come un organo che il corpo cerca di rigettare. Credo sia qualcosa di più inquietante, di più pervasivo, nel senso che sembra dirci, in maniera del tutto reazionaria, che viviamo un’epoca in cui i cold case sono l’unica forma di nostalgia che ci possiamo ancora permettere, perché scaviamo nel passato non per trovare giustizia ma per confermare che il presente fa ancora più schifo di quanto pensassimo.

Matthew Goode è Carl Morck e Carl Morck non è il solito ammorbante genio incompreso o il consueto, e urticante, cinico dal cuore d’oro, tipo Dottor House. Carl Morck è semplicemente uno stronzo che ha visto un collega morire, il proprio partner paralizzato, e usa il trauma come scusa per essere ancora più stronzo.

E mentre lo guardavo muoversi da stronzo in quel seminterrato uscito da un incubo horror di Gaspar Noè — ma senza la poesia, solo l’umidità — pensavo, non ci crederete, a come anche Gerry Scotti, nel suo studio dorato di Caduta Libera, sia circondato da persone che fingono di sopportarlo mentre in realtà sognano di spingerlo in una delle botole dello show. E se anche lo zio Gerry ti regala soldi mentre Morck solo insulti, la sensazione più o meno vaga che l’umanità sia stata un errore evolutivo ti resta in ogni caso.

Tutto, cioè la storia, inizia perché in Dept. Q c’è una procuratrice che scompare ed è un’assenza che, per come è trattata — visto che si capisce che è un rapimento fin dalla pubblicità prima della sigla di Netflix — farebbe impallidire qualsiasi torture porn, ma che qui viene presentata con la stessa freddezza clinica con cui si aggiorna la versione pre-compilata del 730.

Perché poi Scott Frank prende i romanzi di Jussi Adler-Olsen e li svuota di qualsiasi residuo di umanità (più o meno nordica), e la sostituisce con una forma di cinismo (più o meno britannico) che confonde la misantropia con la profondità emotiva. E nel frattempo, non proprio a sorpresa, Edimburgo diventa forse il vero antagonista, ossia una città gotica che sembra nutrirsi della miseria dei suoi abitanti, proprio come fossero quella cena fredda che consumiamo di fronte all’ennesima serie crime di Netflix.

In questo modo — e forse è un problema e forse è un pregio, dipende da quanto siete disposti a scavare e indugiare nel vostro masochismo — Dept. Q finisce per prendersi sul serio. Niente postmoderno per (sor)ridere del genere, quanto piuttosto quintalate di “realismo sporco” che aspira a essere arte e che stridono con una serie che, per molti aspetti, non è che l’ennesima variazione sul tema del detective che non sa amare.

Ma la sopresa vera è che Dept. Q, a dispetto di tutto ciò, funziona, e alla grande. Perché Morck è così insopportabile da diventare magnetico, perché Alexej Manvelov, nei panni di Akram, il rifugiato siriano che diventa il Watson di questo Holmes marcio, è portatore di una dignità silenziosa e violentissima che contrasta con il caos emotivo del protagonista, perché Leah Byrne, come Rose, incarna quella generazione di giovani poliziottǝ che devono scegliere tra accontentarsi, diventare cinici e privi di sogni, come vuole la contemporaneità, oppure impazzire e guidare ai 20 allora per evitare di investire i vecchietti.

Ma soprattutto funziona perché è una serie di carne e sangue, di volatili morti e di vendetta brutale, di persone che leggono fascicoli polverosi in un seminterrato umido, come se il passato analogico potesse ancora insegnarci qualcosa sul presente digitale.

È vero, Dept. Q appare inutilmente lungo, gli episodi si dilatano all’estremo prima di spezzarsi, ma questa espansione temporale diventa parte del fascino malato della serie, in un’esperienza che vorrei definire immersiva — se immersiva significasse davvero qualcosa — nel peggiore dei mondi possibili, di cui viviamo ogni singolo momento di noia, frustrazione, violenza, proprio come i personaggi.

In più, per tornare da dove eravamo partiti, come ogni serie crime degna di tal nome, in Dept. Q, come dicevamo, c’è il trauma. Dal quale non solo non è prevista guarigione, ma che cancella anche la pretesa che il dolore possa trasformarsi in qualcosa di positivo. Il trauma è semplicemente lì, nell’umidità sulle pareti del seminterrato (oltre che nella consapevolezza che continueremo a guardare serie su detective rotti finché Netflix non fallirà o l’umanità non si estinguerà).

E mentre i titoli di coda scorrono sull’ennesimo primo piano di Goode che guarda nel vuoto come se avesse visto il futuro e fosse solo altra merda, penso che forse Scott Frank ci sta dicendo che questa è la serie che ci meritiamo. Non quella che vogliamo, non quella di cui abbiamo bisogno, ma quella che riflette perfettamente la nostra condizione, dal suo punto di vista: intrappolati in un seminterrato esistenziale, circondati da casi irrisolti che sono le nostre stesse vite, guidati da stronzi che ci dicono verità che non vogliamo sentire.

Dept. Q non è una serie da amare. È una serie da sopportare, è competence porn per masochisti, è scandi-noir senza la Scandinavia, è True Detective senza la poesia, è Mare of Easttown senza Kate Winslet che mangia hoagies. È, in sostanza, esattamente quello che ci aspettiamo da Netflix nel 2025: un prodotto tecnicamente impeccabile, emotivamente vuoto, compulsivamente guardabile. Guardarla è come grattarsi una crosta: sai che non dovresti, sai che farà male, ma non puoi farne a meno.

Nel frattempo, da qualche parte in Italia, Gerry Scotti continua a far cadere concorrenti nella botola, e sarebbe facile affermare che il vero abisso non sia sotto i loro piedi, ma attorno a loro, nel fatto stesso che si trovano lì. Troppo facile. Forse, invece, come in un riflesso, ci dice Dept. Q, l’abisso vero è piuttosto nelle storie che non ci interessano e che guardiamo lo stesso, o nelle città che non visiteremo mai, per ragioni che abbiamo già dimenticato, quasi fossero le scuse di un The Bear qualsiasi.

Welcome to the basement.

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