L’era della sorveglianza nella serialità
Un’analisi di Black Mirror, Westworld e Mr. Robot
C’è qualcosa di profondamente disturbante nelle serie che raccontano la sorveglianza. Ma non perché siano distopie – non solo, almeno. È che la loro distopia ha sempre un sapore di presente e a volte addirittura di passato. Perché chi ci guarda, ci ha sempre guardato.
E c’è un paradosso sottile nel nostro tempo: più tutto si connette, più ci sentiamo sorvegliati. Come se la rete, nata per liberarci, si fosse lentamente trasformata in una gabbia trasparente, in cui ogni gesto, ogni ricerca, ogni like è un segnale, un dato, una traccia. Eppure, in questo scenario iperstrutturato, c’è chi — come Hakim Bey — aveva già intuito la necessità di creare fughe laterali, spazi anarchici e temporanei in cui il potere non può mettere radici: le T.A.Z., quelle Zone Temporaneamente Autonome che si accendono e si spengono come intermittenze, come glitch nella matrice. Forse è lì, in quei margini inafferrabili, che ancora possiamo respirare. Ma quanto durano? E soprattutto: chi riesce davvero a entrarci, oggi, senza essere intercettato, geolocalizzato, restituito alla norma?
Perché poi arriva Matrix, che non solo dà un nome a quella matrice, ma mostra quanto sia difficile uscirne davvero — e quanto spesso la fuga sia essa stessa una forma di controllo. Black Mirror si limita a specchiarci, come un monito lucido e sterile, dove ogni tentativo di ribellione si avvita in una nuova forma di intrattenimento. In Westworld, il parco non finisce mai: anche quando credi di aver trovato la via d’uscita, scopri che il labirinto era un’altra narrazione. E Mr. Robot, con tutta la sua rabbia hacker, ci lascia il sospetto che anche il sistema da abbattere sia solo un’illusione ben confezionata — che il vero potere, quello intoccabile, sia sempre un passo più in là. Sono storie di disconnessione apparente, di rivolte programmate, di T.A.Z. che non durano abbastanza. Fuga laterale sì, ma tracciata.
Cambiano i mezzi, i metadati, gli algoritmi, ma il meccanismo è sempre lo stesso: osservare per controllare. E noi lì, a guardare chi ci guarda, seduti sul divano, col telecomando in mano. Questo è l’inizio del cortocircuito.
Prima ancora che arrivassero le serie tv a ricordarcelo, ci fu Matrix. Non solo un film, ma un mito fondativo dell’epoca digitale: un mondo fittizio alimentato da dati e sogni, dove il risveglio non è mai dolce, ma necessario. La domanda non è più “cos’è reale?”, ma “cosa ci conviene credere?”. La pillola rossa o quella blu. La fuga o l’adattamento. L’uscita dal sistema o il rientro consapevole in un altro. E forse è proprio questa l’eredità più potente di Matrix: non ci ha lasciato un’estetica – che pure c’è, e l’abbiamo copiata in tutte le salse – ma un dubbio ontologico che ancora oggi ci tiene svegli. Le serie successive non fanno che aggiornare quel dubbio, renderlo più sottile, più quotidiano, più tragicamente nostro.
Partiamo da Black Mirror, una serie rivoluzionaria e che ha provato a giocare con noi, in particolare nell’episodio “Bandersnatch”, rendendoci parte integrante di quei mondi che cerca di analizzare e destrutturare.
La serie di Charlie Brooker non è solo una raccolta di futuri scomodi: è un caleidoscopio di desideri malati, di tecnologie che amplificano l’ansia più di quanto non la risolvano. La sorveglianza qui non è solo una videocamera, ma è dentro le cose: nei like, nei ricordi digitali, nei ranking sociali che decidono se puoi entrare in un condominio o parlare con un essere umano. Non serve più la prigione panottica di Foucault: basta uno smartphone e un profilo ben addestrato. Perché oggi il sorvegliante non sta più in cima a una torre, non ha bisogno di farti sentire osservato per farti comportare bene. La sorveglianza è diventata orizzontale, liquida, distribuita. Siamo noi a offrirci spontaneamente allo sguardo dell’altro, a diventare contenuto, pattern, target. E il potere – che un tempo era istituzione, Stato, gerarchia – adesso è algoritmo. Invisibile, impersonale, ma capace di sapere cosa ti piace prima ancora che tu lo sappia. Il panopticon era un’architettura; oggi la prigione è una UX. Ha colori pastello, mansueti protocolli d’ingresso, notifiche che ti dicono “sei a posto così”. Ma mentre scorri, posti, clicchi, ti profili. Ti lasci organizzare, categorizzare, normalizzare. E lo fai con entusiasmo, perché è comodo, perché è personalizzato, perché “è gratis”. Solo che il prezzo, come diceva qualcuno, sei tu. Ma la domanda vera, forse, è: siamo davvero costretti a questo? O ci siamo infilati da soli nel labirinto, un selfie alla volta?
Poi c’è Mr. Robot, che non è una serie: è un delirio lucido, un manifesto hacker, una lotta interiore lunga quattro stagioni. Elliot Alderson non è l’eroe, è il sintomo. Sintomo di un mondo che non distingue più tra realtà e virtuale, tra giustizia e vendetta, tra sicurezza e paranoia. Un mondo dove, come scrivono Williams e Srnicek nel “Manifesto accelerazionista”, il capitalismo non ha bisogno di rallentare, ma di essere spinto oltre, accelerato fino a mostrare le sue crepe, i suoi punti di collasso. Mr. Robot non propone soluzioni, ma incarna proprio questa tensione: non distruggere il sistema da fuori, ma mandarlo in crash da dentro, sfruttare i suoi stessi protocolli contro di lui. Ma il rischio è che, nell’accelerazione, si perdano i confini. E così Elliot finisce per sabotare non solo il potere, ma anche se stesso. Perché in un mondo dove tutto è codice, anche l’identità diventa un software instabile, un file che si corrompe. E il modo in cui la serie costruisce l’idea di sorveglianza è ipnotico: ogni scena è come se ci dicesse che non siamo mai davvero soli, che ogni mossa è tracciata, ogni glitch ha un significato. Ma anche qui: è davvero l’élite a tenerci d’occhio, o siamo noi stessi ad aver internalizzato – e interiorizzato – lo sguardo del potere, come diceva Judith Butler? Non è più necessario essere sorvegliati da qualcuno per adattarci a un certo ordine, perché è lo stesso sguardo dell’autorità (morale, sociale, normativa) che agisce da dentro. Lo abbiamo fatto nostro. Un po’ come nel panopticon di Foucault, ma con un livello in più: non ci comportiamo “bene” solo per paura della punizione, ma perché crediamo che sia giusto così, perché ci identifichiamo con quel controllo. Forse non abbiamo più bisogno di un carceriere: basta la nostra ansia da notifica.
Infine Westworld, la serie che parte con gli androidi nei saloon ma finisce per raccontare noi. Le stagioni passano, e il focus si sposta: non più solo la coscienza delle macchine, ma quella degli esseri umani. Perché la vera questione non è se i robot diventano come noi, ma se noi siamo già diventati come i robot. Programmati, ripetibili, tracciabili. Ma dove finisce, allora, il libero arbitrio?
L’altro giorno passeggiavo con un amico, Alberto, per le strade del centro di Cagliari tra un Baileys con ghiaccio e un’Ichnusa fresca, mi chiedeva proprio questo: esiste il libero arbitrio? In un mondo che ha eletto la scienza a unica lente di osservazione possibile, che spazio resta per l’indecidibile, l’ambiguo, il non misurabile? Se tutto è causa-effetto, se ogni azione è la conseguenza calcolabile di una variabile precedente, siamo ancora liberi o solo complessi automatismi biologici? E soprattutto: può esistere un altrove, una coscienza collettiva, una forma di immaginazione condivisa – junghiana, magari – che ci permetta di scardinare questa visione deterministica? O siamo già dentro la macchina, convinti di essere i programmatori mentre siamo solo il codice? Sono domande che sicuramente non possono trovare risposta nel tratto di strada tra via Garibaldi e via Manno ma forse una risposta non c’è.
In fondo, tra Matrix, Black Mirror e un profilo TikTok, la posta in gioco non è la tecnologia. È la libertà.
E lo dice chiaramente, proprio in Westworld, il sistema Rehoboam: conosciamo ogni tua scelta, ogni deviazione, ogni errore.
Interessante, da questo punto di vista, il richiamo biblico e israelitico al personaggio di Rehoboam: figlio di re Salomone, che con la sua rigidità e la sua incapacità di ascolto portò alla divisione del Regno di Israele e di Giuda. Un potere nato dalla sapienza che diventa opprimente.
E interessante, quindi, potrebbe essere fare un paragone tra il sistema predittivo Rehoboam di Westworld e la continua negazione di diritti e il sistema di apartheid dello Stato di Israele: in entrambi i casi, una struttura di controllo predittiva, basata su classificazioni e discriminazioni sistemiche, decide chi può vivere dove, in che modo, con quali diritti. L’apartheid, come Rehoboam, funziona dividendo, sorvegliando, classificando. Nel caso israeliano, ciò avviene sulla base di criteri etnico-politici; in Westworld, il criterio è il “profilo psicometrico” e la presunta instabilità sociale. Ma il meccanismo è simile: un potere centrale decide chi è “gestibile” e chi va escluso, chi ha accesso al futuro e chi no.
Rehoboam, proprio come un sistema di apartheid, non ha bisogno di un carceriere visibile. È un potere algoritmico, che ti dice dove puoi arrivare e dove no, e che può persino farti credere che sei stato tu a scegliere. La ghettizzazione, in questo senso, non è solo spaziale: è cognitiva, sociale, predittiva. E, in entrambi i casi, ciò che viene eliminato non è solo la libertà, ma la possibilità stessa di immaginare un altro mondo.
Il punto comune a tutte queste narrazioni è che la sorveglianza non è mai solo tecnologica. È emotiva, relazionale, estetica. Si insinua nella cultura, nelle relazioni, nella sessualità, nel modo in cui ci rappresentiamo online. Ed è proprio questo che rende queste serie così scomode: non ci danno risposte, ma ci sbattono davanti agli occhi il fatto che siamo già dentro il sistema. E forse l’unico modo per uscirne è guardarci dentro con lo stesso sguardo critico con cui guardiamo gli altri. O forse non c’è nessuna uscita. Ma almeno, mentre restiamo dentro, possiamo provare a cambiare il codice.
Perché a volte il glitch, il bug, l’errore non è un problema. È un’opportunità. Pillola rossa o pillola blu?