PATERNAL LEAVE

PATERNAL LEAVE

Qual è il peso di un abbandono? È possibile che rinunciare a una responsabilità che sentiamo più grande di noi sia, in fondo, un atto di responsabilità verso l’altra persona? Sono alcune delle domande che sorgono spontanee mentre si guarda Paternal Leave, l’opera prima di Alissa Jung presentata in anteprima mondiale alla Berlinale 2025 e in anteprima nazionale al Bellaria Film Festival 2025.  

Leo (Juli Grabenhenrich) ha quindici anni e il desiderio di conoscere il padre biologico che non ha mai incontrato. Da Monaco di Baviera arriva in Romagna, a bordo di un treno notturno che taglia la notte e l’Italia. Arriva in una Marina Romea sbiadita dall’inverno per bussare alla porta di suo padre Paolo (Luca Marinelli), che ha rilevato da poco un piccolo chiosco sulla spiaggia da riassestare in vista dell’inizio della stagione. Questa visita inaspettata rompe gli equilibri e scatena quel vortice di emozioni tipico di quando un passato irrisolto penetra nel presente.

Paolo è un padre che ci prova, con un bagaglio di timori alle spalle ma grande tenerezza nei gesti e negli sguardi. È una figura che prova a crescere – tra tentativi impacciati – per assumersi quelle stesse responsabilità che a 21 anni ha respinto. Quando sua figlia Leo irrompe nella notte con un lungo elenco di domande per conoscerlo meglio, i timori lo assalgono, prende tempo per capire cosa poter fare con questo pezzo di vita che aveva rifiutato quindici anni prima. Dall’altra parte, invece, Leo procede ostinata nel cercare un legame che desidera fortemente ma che arranca nel realizzarsi, e lo cerca con la determinazione tipica di chi è certa della legittimità dei propri desideri ma che, allo stesso tempo, fa i conti con le incertezze della sua età. Jung ha scritto con estrema limpidezza questi corridoi emotivi lungo i quali camminano i suoi personaggi: il dolore nel vedere quel rapporto desiderato concretizzarsi tra il proprio padre e la sua ultima figlia, il peso delle scelte che un genitore compie quando rifiuta un ruolo che non cercava ancora, il senso di responsabilità che irrompe anni dopo, la confusione di un uomo che deve fare i conti con la genitorialità che non ha formule né vincenti né universali. 

In Paternal Leave, i due personaggi si cercano e si rincorrono nel rifiuto, nella rabbia e nel dolore provocato e sofferto, nei gesti d’affetto che fanno da collante tra le discussioni urlate e silenzi densi di paure e desideri. C’è tanto abbandono quanto ricerca in questa storia racchiusa nella riviera romagnola, sintesi perfetta di tutto ciò che Paolo e Lea hanno dentro di loro. 

L’esordio alle regia firmato da Alissa Jung è un film asciutto nella forma e strabordante di emozioni da interrogare e decifrare, non una storia universale sul legame padre-figlia, ma un racconto intimo su cosa possa significare andare alla ricerca di un legame che ci è stato negato, e fare i conti con il timore di non essere all’altezza delle proprie responsabilità. Questo è un film di sfide rischiose che la regista ha ampiamente vinto: ha messo la storia nelle mani di un’esordiente al suo debutto, impeccabile, sul grande schermo, al fianco di un attore già affermato che rischiava con la sua prova attoriale di adombrare gli altri personaggi, e che, inoltre, arrivava da un ruolo “ingombrante” sotto molti aspetti (Mussolini in M. Il figlio del secolo); Jung ha poi scelto la doppia lingua per l’interpretazione dei due personaggi (inglese/italiano), facendosi carico di una grande responsabilità in termini di scrittura e di dialoghi. Non c’è sfida che questo film abbia perso, a partire dalla scelta di un’esordiente come Grabenhenrich che è riuscita in tutto, ai dialoghi in inglese che, nella loro essenzialità, hanno conservato ogni singola sfumatura, fino al rapporto con il territorio e quell’immagine della riviera romagnola, sempre fuori dal tempo e dallo spazio, essenza autentica di un luogo che si fonde con le emozioni e le accoglie.

Se c’è qualcosa che rende un esordio potente come lo è Paternal Leave, è quella capacità di narrare complessità e fragilità con una semplicità disarmante, senza appiattire le sfumature di una storia che s’infila sotto pelle e ci rimane.  

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