Contro il giorno e un’altra Storia (dopo l’altra) negli USA secondo PTA.
Con un budget stimato di 130 milioni di dollari, Una Battaglia Dopo l’Altra è il film più costoso della carriera di Paul Thomas Anderson ma anche quello che, finalmente, ricolloca un cast e le vicende dei suoi personaggi in uno scenario contemporaneo che il regista non affrontava di petto dai tempi di Ubriaco d’Amore. Come se, nel suo riavvicinamento temporale ai giorni nostri, questo gesto potesse giustificarsi, paradossalmente e in maniera direttamente proporzionale, solo con una cornice economica che eclissasse le maniacali ricostruzioni storiche rivolte ai passati indagati dal Petroliere fino a Licorice Pizza. La motivazione? Realizzare una scena d’inseguimento, qualcosa che fino ad oggi poteva sembrare aliena alla filmografia del regista e che invece riconferma il tratto sempre movimentato dei suoi film (Alana Haim in retromarcia a bordo del camion nel precedente film non ce la possiamo dimenticare). Proprio attorno a questa scena, ricordo che trapelarono le prime immagini sul web e quella visione lasciò ulteriormente basiti quando si venne a sapere che si trattava nuovamente, dopo Vizio di Forma, di un’altra traduzione (più ispirata che adattata) di romanzo (ancora più impossibile) di Thomas Pynchon. Un desiderio che Anderson cullava da ormai 20 anni.
Pubblicato nel 1990, Vineland irrompeva sugli anni ottanta di Reagan per fare luce con digressioni surreali verso gli anni Sessanta di un’epopea famigliare intrisa di controcultura hippie. Rispetto all’indirizzo ammirevolmente fedele e rischiosamente quasi letterale di Vizio di forma, PTA compie un necessario tradimento verso l’irriproducibile forma narrativa di Pynchon, contenendone però l’ossatura cardine, su cui ricostruire la propria idea di cinema. Come il suo protagonista Bob Ferguson (Leonardo Di Caprio), congegna un cortocircuito tra il materiale di partenza e la sua fantasia cinematografica per far detonare una propria epopea famigliare, che si impenna durante gli ultimi 15 anni del 21° secolo, dove il villain di turno, il colonnello Lockjaw (un magistrale Sean Penn) deve assicurarsi di non aver avuto una figlia da un (proibito) rapporto interrazziale molti anni prima, requisito imprescindibile per riuscire a soddisfare il suo avvenire tra i Pionieri del Natale: una segreta loggia di suprematisti bianchi. Per fare ciò mobilita l’esercito per mettersi sulle tracce di Bob e sua figlia Willa (Chase Infiniti), avuta dalla misteriosa e sensuale Perfidia Beverly Hills (Teyana Taylor), donna afroamericana discendente da una famiglia di rivoluzionari dalla quale Lockjaw era stato attratto sessualmente, per poi catturarla e farla scomparire.
Il carisma di Bob Ferguson contiene in sé i tratti di un moderno, e all’epoca già pynchoniano, Lebowski dei fratelli Coen che, diversamente da The Master e Vizio di Forma, non trova più voce nel volto attonito di Joaquin Phoenix quando prestò il suo phisique du role a Doc Sportello, ma in quello più nervoso e scapestrato che PTA intercetta per la prima volta in Leonardo Di Caprio. Ex rivoluzionario ed esperto di esplosivi sotto falso nome, Ghetto Pat ha obliterato la sua nomea di Rocket Man trasformandosi in un residuo del passato, un padre affettuoso ma paranoico quando si atteggia maldestramente verso gli amici della figlia, e soprattutto incapace di ricordarsi frasi e parole in codice, quelle che avrebbe dovuto memorizzare per reagire con prontezza al rapimento di Willa. Sul piano fisico però è un corpo cartoonesco dalla scivolosità slapstik che PTA lascia sfuggire in tunnel sotterranei, attraverso cunicoli e porte, salta e cade (senza stunt) dai tetti e dalle auto in corsa, consegnandoci la sua performance più goffa e divertente. Lui è l’americano bianco e ribelle che non riesce a stare alla velocità di Perfidia nella sua corsa precipitosa con i French 75, gruppo di rivoluzionari coinvolti in operazioni di sabotaggio dei centri illegali di detenzione per immigrati.
Nel primo atto, praticamente un film a parte, il tempo è compresso nell’arco di poco più di mezz’ora in cui si riassume l’iconica parabola di Perfidia, coinvolta in un malsano gioco di attrazioni con il colonnello, altrettanto bianco, incarnazione deformante e ipertrofica del potere, che costringerà il gruppo “di terroristi”, e i pochi che riescono a sopravvivere, a inabissarsi sotto copertura. Con un colpo di punteggiatura narrativa da maestro, PTA chiude il lungo flashback introduttivo con un’ellisse temporale che ci proietta sedici anni dopo di fronte all’apprendista judoka Willa, un lungo salto temporale dal passato al presente che i fan delle migliori saghe di One Piece non potranno non amare, e consegna a questo grande fumetto cinematografico Chase Infiniti, la stella nascente del cast: non più una neonata che ha minato la relazione da cui Perfidia è voluta fuggire anni prima per tenere fede alla sua missione politica e non a quella della sua responsabilità materna, indole che invece si ritrova a rivestire la figlia nei confronti del padre paranoico e bevitore longevo per il quale le immagini in televisione della Battaglia di Algeri hanno preso il sopravvento su quelle del suo passato.
Con un raid militare che impressiona per la forte eco di violenza e sospetto dilagante che oggi alimenta le cronache della seconda presidenza Trump (sebbene le riprese si siano svolte prima delle ultime elezioni di un anno fa), il ritorno dal passato di Stephen L. Lockjaw, come in una moderna fiaba, reinnesca il sangue che scorrerà dalle vecchie cicatrici famigliari che animano tutto l’ampio blocco centrale del film, quello che più finemente si elabora nella sua distensione temporale delle unità di tempo e luogo abbracciate dallo svolgersi di una giornata appena. In questo senso alla fatidica domanda “Che ore sono?” che scandisce la gag centrale, il film rinterroga il tempo attraversato dai personaggi lungo i mesi del primo atto e i minuti al cardiopalma del secondo che ci piovono addosso con la musica nervosamente onnipresente di Jonny Greenwood, il suo accompagnamento più barocco e ingombrante, con i rintocchi dissonanti che, come le lancette diaboliche di un orologio, imprigionano la lunga caccia.
Con un inedito vigore spettacolare, sempre capace di dissimularsi dalle frange più mainstream delle major, il cinema di PTA incontra nuovamente la poetica di Pynchon, per sintonizzarla nuovamente su una sua personale storia di rapporti familiari in cui si corre senza sosta per ritrovarsi contro il giorno (per citare un altro romanzo) e le maglie del potere, lasciando sconfinare geograficamente il drammatico percorso di autodeterminazione di una giovane donna, nata dagli inciampi rivoluzionari dei due imperfetti genitori e, lungo questa rocambolesca catena di eventi, portata a scontrarsi con i rigurgiti ideologici che tramano nella memoria incerta della madre mai conosciuta, per alcuni un’eroina, e per altri una strega, mentre per qualcun altro ancora una guerriera.
Facendo tesoro degli insegnamenti di Sergio St. Carlos, il memorabile istruttore di judo di Benicio Del Toro, a cui viene lasciata la battuta più memorabile del film già dai primi trailer, Willa si trova per tutto il film a lottare tra due poli paterni: quella dimentico e acquisito di Bob e quello vendicativo e sanguigno del fascista Lockjaw. In mezzo a questi, batte il cuore di un’eredità materna che discende da una lunga tradizione di rivoluzionari. Al termine di questo viaggio, l’epopea di PTA si consuma nella psichedelia della trasognata fuga in macchina, in cui l’America girl si afferma come l’influente corrente carsica capace di fermare il tempo nella corsa violenta lungo le colline desertiche della (sua) Storia americana, come quell’altro iconico inseguimento di quell’epopea refniana sugli USA di oggi che era Too old to die Young.
“Una battaglia dopo l’altra è un nuovo grande affresco sull’america oggi, dolente e tragicomico, dove i nomi di Tom Cruise, Batman e Peter Parker trovano diritto di citazione nelle battute più divertenti e iconiche del film, contrariamente a qualsiasi altro riferimento esplicito alla realtà statunitense degli ultimi anni, eppure talmente vivida in questo senso da dimostrare l’inesauribile talento di un autore che non smette mai di rinnovare le forme del suo sguardo, riuscendo a trovare anche nel grande intrattenimento la sua chiave d’accesso per un nuova memorabile dimensione più popolare, in cui la miccia dell’istant cult lo imprimerà come un classico intergenerazionale negli anni a venire.”




