La sacralità della catastrofe e il nuovo volto della fine
L’Apocalisse non è una profezia: è una sceneggiatura riciclata da secoli. Cambiano le epoche, le fedi, i media, ma la trama resta sorprendentemente fedele a se stessa: un mondo al collasso, l’annuncio della fine, e l’umanità che tenta — quasi sempre invano — di salvarsi. Dalla visione profetica di Giovanni ai corpi dipinti da Michelangelo, passando per i campi lunghi di Tarkovskij e i deserti magnetici di Antonioni, l’Apocalisse si è sempre offerta come spettacolo da contemplare. Un rito narrativo che ha perso il suo annuncio divino, ma custodisce intatto il riflesso della nostra angoscia più profonda: la paura di non avere un domani. E oggi è il cinema la nuova arte del Giudizio.
La fine inizia con una visione. L’Apocalisse di Giovanni, ultimo libro del Nuovo Testamento, è una narrazione potentemente simbolica, ricca di immagini sconcertanti: cavalieri, trombe, flagelli, draghi e giudizi divini.
Nel Medioevo, questa questo racconto diventa materia viva per l’arte. Le cattedrali gotiche si popolano di Giudizi Universali scolpiti nella pietra, mentre miniature e affreschi traducono la visione di Giovanni in una scenografia del terrore e della speranza. Ma è con Michelangelo che l’Apocalisse trova uno dei suoi vertici visivi: il Giudizio Universale nella Cappella Sistina (1536-1541) è un turbine di corpi, un teatro cosmico dove anime salgono al cielo o precipitano all’inferno sotto lo sguardo inflessibile del Cristo giudice.
Il cinema catastrofico contemporaneo raccoglie l’eredità dell’iconografia apocalittica e la reinventa. Film come Armageddon (1998), The Day After Tomorrow (2004), Don’t Look Up (2021), o Mad Max: Fury Road (2015) mettono in scena nuovi Giudizi Universali, dove l’umanità affronta la propria distruzione imminente.
In questi film, la Terra è la nuova Cappella Sistina: le figure redentrici non sono santi o profeti, ma scienziati, astronauti, madri coraggiose. Il giudizio resta, ma il divino tace.
Che sia scolpita in una cattedrale o proiettata su uno schermo, l’Apocalisse continua a parlarci del nostro eterno bisogno di dare forma al caos. Ogni generazione ha bisogno della sua fine del mondo. Tutti necessitiamo di saper cosa si prova sull’orlo del precipizio. Tra la vita e il crollo. Tra il tutto e la rovina. Non per assaporare il gusto di polvere e ferro della distruzione, ma per scoprire finalmente per cosa vale la pena restare appigliati alla vita.
L’arte oggi insegue la catastrofe alla ricerca del senso del mondo. La fine del mondo diventa materia estetica, poetica, politica. E il cinema si fa nuova iconografia escatologica: non più affreschi, ma fotogrammi. Non più trombe angeliche, ma colonne sonore elettroniche, esplosioni al rallentatore, campi lunghi su deserti e città morte.
Le Apocalissi di Tarkovskij, Antonioni, Wenders, Von Trier sono intime, simboliche, profondamente umane.
Tarkovskij: il sacrificio come redenzione
Il Sacrificio (1986) di Andrej Tarkovskij è una vera liturgia apocalittica. L’annuncio di una guerra nucleare non è solo sfondo: è il suono delle trombe dell’Apocalisse di Giovanni che irrompe nella quotidianità di un uomo, Alexander, costringendolo a confrontarsi con l’abisso.
La fine del mondo, in Tarkovskij, non esplode in spettacolo, ma si rifrange in visioni: città deserte, giornali fradici che galleggiano nell’acqua, simboli muti della civiltà alla deriva. La catastrofe non è ancora accaduta, ma è già irrimediabile nella coscienza. È qui che si apre lo spazio del sacro: Alexander, con la furia di un martire e la fede disperata di un novello Abramo, si prepara a distruggere ciò che ama — la casa, la famiglia, il proprio ordine — per salvare il mondo degli uomini.
La casa che brucia è la nuova Cappella Sistina in fiamme: un rogo purificatore, simbolo del Giudizio che annienta per rigenerare. Ma l’Apocalisse di Tarkovskij è interiore, contemplativa, quasi estatica. L’ambientazione austera, le inquadrature lente, l’ossessiva immobilità dei personaggi e l’uso del silenzio trasformano la fine in una preghiera cinematografica. Il tempo si sospende, il disastro si fa mistica. Non si tratta di sopravvivere, ma di redimere attraverso il gesto, attraverso la rinuncia.
Antonioni: la bellezza della distruzione
In Zabriskie Point (1970), la fine del mondo prende la forma di un’esplosione estetica. La celebre sequenza della villa che deflagra nel deserto è un atto di iconoclastia cinematografica: un Giudizio Universale anti-sacrale, dove non cadono le anime, ma gli oggetti del desiderio consumista. Frigoriferi, libri, vestiti, sedie: simboli della civiltà moderna vengono polverizzati al rallentatore. È il peccato del mondo che si frantuma.
Visivamente, Antonioni richiama l’Apocalisse materialista di Hieronymus Bosch: un mondo sovraccarico, malato di oggetti, che implode sotto il peso della propria idolatria. Ma c’è anche qualcosa della pittura romantica, come nei paesaggi catastrofici di John Martin: una bellezza che scaturisce dalla distruzione, una poesia visiva nella disgregazione.
Il deserto di Zabriskie Point, con le sue onde di sabbia, si fa “spazio sacro”, come un monte Sinai laico dove i giovani amanti vivono una rivelazione erotica e cosmica. Anche qui, l’Apocalisse non è solo una fine, ma un’occasione per immaginare un altro inizio — o almeno, per godere della bellezza del collasso.
Wenders: l’Apocalisse come deriva dell’immagine
In Fino alla fine del mondo (1991), Wim Wenders mette in scena un’Apocalisse silenziosa, senza trombe né fuoco dal cielo. Niente esplosioni, nessun Dio in collera. Eppure, la fine è ovunque: è nelle immagini che ci consumano, nei sogni che smettono di essere privati, nella perdita della memoria e del contatto con il reale. È un’Apocalisse interiore, senza corpi bruciati ma con coscienze svuotate.
Il film anticipa con inquietante lucidità l’ossessione contemporanea per la registrazione visiva di ogni cosa. Qui l’Apocalisse non è una catastrofe naturale o politica, ma visiva e mentale: un mondo in cui le persone, potendo finalmente “vedere i propri sogni”, ne diventano dipendenti, smettendo di vivere. È la mutazione della visione da strumento di conoscenza a virus interiore — un’idea che ribalta l’iconografia tradizionale dell’Apocalisse come rivelazione. Qui la rivelazione non salva: consuma.
Il lungo viaggio attraverso il mondo, che porta i protagonisti fino all’Australia aborigena, è un pellegrinaggio laico e disorientato, una nuova forma di esilio biblico. I deserti, le città, le tecnologie, gli incontri — tutto richiama un’umanità che ha perso la bussola, spirituale e culturale. L’Apocalisse, in Wenders, non esplode: si diluisce nel tempo e nello spazio. E come in Giovanni o in Tarkovskij, anche qui c’è una speranza implicita: che proprio nel deserto delle immagini, possa ancora nascere una domanda di senso.
Lars von Trier: catastrofi dell’anima e del cosmo
Pochi registi hanno però saputo rendere l’Apocalisse un’esperienza così insofferentemente intima come Lars von Trier.
In Antichrist (2009), Von Trier prende l’iconografia dell’Eden e la sovverte: il paradiso naturale diventa inferno psicologico. Il giardino, tradizionalmente luogo di grazia e origine, è infestato dalla morte, dal dolore, dalla colpa. Come nelle immagini medievali in cui il serpente si insinua nel cuore del creato, qui la natura stessa diventa ostile, quasi satanica.
L’Eden diventa inferno, l’albero della vita è malato, la natura è crudele. Un’Apocalisse gotica, con immagini che richiamano Dürer e Bosch.
L’albero con il feto morto alla base richiama l’Albero della Vita spezzata, e l’intera narrazione sembra disegnata come un’icona sacra in negativo. I titoli dei capitoli (“Dolore”, “Disperazione”, “La Trepidazione”) ricordano le stazioni della Passione, ma non c’è resurrezione: solo giudizio e condanna.
In Melancholia, Von Trier compone un’Apocalisse come pittura in movimento. La sequenza iniziale è un trittico fiammingo trasposto al cinema: cavalli che crollano, corpi immobili, galassie che collidono. Il pianeta Melancholia è il nuovo “angelo sterminatore”, il corrispettivo scientifico dell’Agnello che apre i sigilli.
La protagonista, Justine, attraversa l’Apocalisse in uno stato di beatitudine malinconica, quasi mistica: è la sola che accetta il giudizio, mentre gli altri crollano nella paura. La “capanna magica” costruita con i rami è una fragile arca di salvezza simbolica, che non salva, ma accompagna dolcemente alla fine. Qui l’Apocalisse non punisce: riflette la condizione dell’anima. È un dolore cosmico, una depressione planetaria. Non più colpa e redenzione, ma incomprensione e accettazione.
I fotogrammi del Giudizio
Il fuoco, il deserto, l’albero, la distruzione, il sacrificio, la visione: sono tutti elementi che, nel cinema citato, non illustrano l’Apocalisse, ma la evocano, la rendono presente. Non si tratta solo di catastrofi: si tratta di rivelazioni.
Oggi, la “fine del mondo” è ovunque: nella crisi climatica che devasta ecosistemi, nelle pandemie che incrinano la nostra fiducia nel futuro, nelle città sommerse dall’acqua o soffocate dal calore, nei social network che alimentano solitudini globali, nella crisi delle democrazie e nell’erosione della verità. È un’apocalisse lenta, quotidiana, che si insinua nell’ansia collettiva e nella sensazione diffusa che qualcosa stia finendo — o stia cambiando per sempre.
Ma ogni immagine apocalittica, dall’ultimo libro del Nuovo Testamento a Von Trier, continua a porci la stessa domanda: cosa conta davvero quando tutto crolla?