L’abisso della madre
Osservando la contemporaneità, ma non solo, sentiamo oggi che esiste un pensiero indicibile che attraversa l’esperienza materna, un momento di brutalità che la cultura ha sempre cercato di occultare. Non è Anna Maria Franzoni, non è la cronaca nera: è qualcosa di più profondo e sistemico che il cinema contemporaneo sta finalmente portando alla luce.
Ecco perché questo numero di BILLY, che si articola tra settembre e novembre, esplora un territorio a lungo interdetto: l’abisso della maternità quando il mandato biologico collide con il desiderio di autodeterminazione, quando il corpo che genera diventa prigione, quando la funzione riproduttiva si rivela dispositivo di controllo.
Lynne Ramsay con Die, My Love inaugura questa esplorazione: una madre isolata dopo il parto che precipita in una vertigine che va oltre la depressione postpartum clinicamente definita. È lo stesso territorio che Julia Ducournau aveva mappato in Titane, dove il corpo materno si trasformava per sfuggire alla propria funzione riproduttiva. È l’oscurità al centro di The Babadook, in cui il mostruoso coincideva con il rifiuto del ruolo materno.
Il cinema del 2024-2025 presenta oltre quindici titoli sul tema, e questo per noi segnala un’urgenza culturale impossibile da ignorare. Non si tratta più di rappresentare madri snaturate, una categoria morale inventata per il controllo sociale, ma di esplorare corpi dissidenti – per altro tema centrale anche della prossima edizione di Meet the Docs! a Forlì – che rifiutano la loro funzione prescritta.
È qui che la questione si fa necessariamente intersezionale. Mentre il cinema occidentale scopre le contraddizioni della maternità normativa, esistono modelli alternativi che il mainstream continua a ignorare: famiglie queer dove la maternità è plurale, comunità dove la cura è collettiva, resistenze dove il materno non coincide con il sacrificale, luoghi dove la paternità non è contemplata. Il collettivo Monnalisa di Forlì, ad esempio, attraverso il progetto Ciclo Continuo, sta esplorando proprio questi territori: maternità fuori dal binarismo, gestazioni che non implicano annullamento del sé.
E il discorso si complica maggiormente e necessariamente se si considera anche la dimensione dei luoghi della maternità. Il cinema del reale contemporaneo, infatti, mostra anche madri sotto assedio, che partoriscono tra le macerie, che non hanno il privilegio di teorizzare la crisi. La maternità in crisi è anche questione di classe, etnia, di geografia del privilegio.
Parallelamente si aprono nuove frontiere: la riproduzione assistita, i percorsi di transizione che ridefiniscono la generazione, le famiglie che nascono fuori dai modelli tradizionali. Sono i corpi non riconciliati che inventano nuove genealogie.
Ma il punto centrale resta l’abisso. Non come patologia, ma come consapevolezza. La presa d’atto che la maternità, nella forma in cui è stata culturalmente costruita, contiene una dimensione di coercizione che il cinema sta finalmente nominando.
Adrienne Rich negli anni Settanta scriveva del “mito della maternità”. Jane Lazarre in The Mother Knot esplorava l’ambivalenza del desiderio materno. Ci sono voluti cinquant’anni perché il cinema mainstream iniziasse a rappresentare queste verità senza filtri moralizzanti. Nominare l’abisso della madre significa toccare uno dei fondamenti dell’architettura patriarcale.
L’esigenza ci pare evidente. In un’epoca di crisi demografica usata come ricatto politico, mentre l’aborto torna sotto attacco e il corpo femminile ridiventa campo di battaglia ideologico, esplorare criticamente la maternità diventa per noi un atto necessario.
Carlos Saura in Cría Cuervos mostra una bambina che sorride davanti alla madre morta. Non crudeltà infantile, ma intuizione precoce che a volte la fuga dal ruolo passa attraverso l’annullamento. Il cinema del 2025 continua questa esplorazione mentre si moltiplicano le iniziative e i dispositivi per ripensare il materno fuori dalle categorie tradizionali.
BILLY in questi mesi non cercherà consolazione né provocazione. Piuttosto uno spazio di verità dove sia possibile riconoscere che la maternità può essere abisso. Non per colpa, ma per un sistema che ha trasformato la generazione in obbligo, la cura in sacrificio, l’amore in catena.
Solo nominando l’abisso si possono immaginare alternative. Solo riconoscendo le contraddizioni si possono costruire nuovi modelli. Solo decostruendo il mito della madre perfetta si possono liberare le madri reali, e magari inventare modi di amare che non coincidano con l’annullamento di sé. E forse, solo forse, anche inventare modi di amare che non siano anche modi di morire.



