Corpi ribelli e disobbedienze

Corpi ribelli e disobbedienze

Contro il mandato materno, il cinema è spazio di resistenza femminile

Nel lessico sociale del patriarcato, la maternità non è un’opzione: è una funzione assegnata. Un perfetto copione per una soggettività docile, imposta e sorvegliata. 

Il cinema ha storicamente collaborato a questa costruzione: dalla madre santa alla madre devota, nel melodramma classico come nella commedia romantica, la figura materna è stata elevata a mito, blindata in un’estetica del sacrificio e della cura. Il mandato materno è sempre stato un perfetto ingranaggio narrativo.

E se questa è la reiterata rappresentazione del femminile da cui siamo state nutrite, è davvero possibile sottrarsi all’ideologia della vocazione riproduttiva?

Judith Butler ha mostrato che il genere è una performance reiterata, mai stabile né essenziale. La maternità, in questa ottica, è una maschera performativa, un ruolo imposto sotto la minaccia della non-esistenza sociale: essere madre o essere niente. Ma cosa succede se la donna rifiuta di aderire al copione materno, o lo interpreta in modo ambiguo e sconveniente?

Solo una lacerazione della forma sino a qui conosciuta può generare nuovi immaginari femminili: il mandato materno non deve solo essere discusso ma decostruito nella narrazione e nell’immagine.

Il linguaggio cinematografico si è reinventato, frantumandosi e perdendo la sua rassicurante linearità, per poter raccontare una maternità che è anche, e molto spesso, trauma, rifiuto, assenza, un nodo mai sciolto.  

In Cría cuervos di Carlos Saura, We Need to Talk About Kevin di Lynne Ramsay e I’m Thinking of Ending Things di Charlie Kaufman, le immagini incarnano la gabbia ideologica della maternità. Ogni dissolvenza, flashback, sguardo in camera o composizione fuori asse partecipa alla disarticolazione dell’ideologia materna.

In Cría cuervos (1976), Carlos Saura racconta l’infanzia come territorio ambiguo, in cui si mescolano morte, fantasia e memoria. Nell’apparente quiete domestica di una casa borghese madrilena, una bambina di nome Ana osserva, ascolta, immagina. La madre, morta troppo presto, ritorna come presenza spettrale, fragile e silenziosa, incapace di proteggere o guidare. La figura materna è in frantumi. Ana eredita una madre stanca, vittima, impotente contro la brutalità maschile incarnata dal padre militare, simbolo del potere patriarcale e del regime franchista.

Nel franchismo, come in ogni regime autoritario, la maternità diventa un dispositivo politico: alla donna si assegna un ruolo sociale preciso — madre, custode della patria, utero ideologico. Ma Saura capovolge questa visione: la maternità non è rifugio, è prigione. E Ana, nel suo sguardo muto e nel suo desiderio di vendetta, rappresenta già un rifiuto ereditato, una resistenza che passa di madre in figlia. Carlos Saura, in questo film, racchiude la sua denuncia politica nell’infelicità della bambina: il padre militare è il despota autoritario che esercita il proprio imperium; la madre incarna un paese morto dentro, calpestato, inascoltato; e Ana è la ribellione necessaria, che si illude di combattere i nemici con lo stesso veleno che il mondo dei grandi le ha messo in corpo.

In Cría cuervos, lo spazio domestico è ristretto, immobile: il regime franchista, così come il patriarcato, sono una presenza materiale e la casa è anche prigione politica dove i corpi femminili (della madre, della bambina) sono sorvegliati, luoghi di esercizio dell’autorità.

In We Need to Talk About Kevin, lo spazio domestico subisce una trasformazione visiva: la casa diventa il luogo del conflitto. La scenografia costruita con l’alternarsi di forti contrasti accentua l’alienazione di Eva, che vede il proprio ambiente domestico come campo di battaglia tra ciò che “si deve essere” e ciò che è, o non è.

Lynne Ramsay, nel suo disturbante We Need to Talk About Kevin (2011), mette in scena uno dei tabù più indicibili della maternità: l’assenza di amore materno.

Eva non è una madre dolce, né accogliente. La gravidanza la irrita, il figlio la respinge, il suo stesso corpo sembra tradirla. Kevin, fin dall’infanzia, è manipolatore, crudele, enigmatico. Ma il film non cerca un colpevole. Ramsay ci trascina in una trappola psichica, un’esplosione di identità negata.

Eva è punita non tanto per ciò che ha fatto, ma per non aver incarnato l’immagine sacra della Madre. In un mondo dove la maternità è ancora vista come dono incondizionato, la sua freddezza diventa un crimine. Eppure, in quella freddezza, c’è anche una disperata sincerità: non tutte le donne vogliono essere madri. Non tutte ci riescono. Non tutte dovrebbero.

Il film, basato sul romanzo di Lionel Shriver, è un pugno nello stomaco perché rifiuta ogni narrativa riparativa.

In We Need to Talk About Kevin, il corpo di Eva è luogo di colpa, vergogna, desiderio negato, obblighi traditi. Le sue gestualità, le posture, il volto che elude lo sguardo altrui, che si concede brevi esplosioni di visibilità — tutto ciò è mostrato in carrellate lente e in dettagli corporei (mani che tremano, lacrime, urina) che diventano segni visivi di una maternità non voluta o tormentata.  

In I’m Thinking of Ending Things, il corpo è altrettanto mediato: riflessi, specchi, superfici vetrose appannate. Lei è costantemente osservata — dal ragazzo, dai genitori, da se stessa — ma raramente vista come soggetto libero.

In I’m Thinking of Ending Things (2020), Charlie Kaufman destruttura il tempo, lo spazio e l’identità.

Qui la maternità non solo è assente. È del tutto impensabile, cancellata come opzione, mai articolata come desiderio. La madre, nel film, è una figura grottesca e deformata, come tutte le donne in questa narrazione allucinata. Il vero tema è la dissoluzione del soggetto femminile: la donna esiste solo come funzione immaginata da altri, mai come soggetto autonomo.

Oltre il contenuto narrativo, è sul piano estetico che Cría cuervos, We Need to Talk About Kevin e I’m Thinking of Ending Things costruiscono la loro resistenza al mandato materno che imperversa e insiste a manipolare la concezione del femminile. Il rifiuto della maternità non è soltanto detto: è mostrato, sussurrato, inciso nei corpi e negli spazi, nei gesti interrotti, nei silenzi, nella luce. La composizione dell’immagine diventa un atto politico.

Nei tre film, lo spazio domestico — storicamente femminile, materno, custodito —è luogo del trauma. In Cría cuervos, la casa madrilena non è rifugio, ma carcere mentale e politico, allegoria del corpo femminile represso dal franchismo e ridotto a macchina della riproduzione ideologica.

In We Need to Talk About Kevin, Eva è sempre esiliata, isolata, incorniciata, come se il mondo non la contenesse più. La luce acida, i contrasti forti, l’ossessione per il colore rosso — sangue, colpa, memoria — suggeriscono una maternità mai accolta, ma sempre subita.

Infine I’m Thinking of Ending Things porta tutto alle estreme conseguenze: la donna protagonista è superficie riflessa, sogno altrui. La soggettività femminile non ha più nemmeno la possibilità di dire no alla maternità: è già stata dissolta.

In tutti e tre i casi, il linguaggio cinematografico non accompagna il discorso politico: lo realizza. Questi film non si limitano a criticare il mito della madre devota e oblativa: lo disinnescano iconograficamente, inventando nuove grammatiche dello sguardo, nuove immagini che possono finalmente contenere donne ambigue, riluttanti, in fuga. Non eroine, non martiri. Solo soggetti. Madri o non madri che siano.

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