“REAL” di Adele Tulli
In Real (2023), Adele Tulli prosegue la sua indagine sulle forme contemporanee dell’esistenza — dopo Normal (2019) — spingendosi questa volta in un territorio dove la materia del mondo sembra dissolversi in flussi, segnali e schermi. Il film attraversa il mondo del presente, osservando i corpi che abitano una realtà filtrata, mediata, continuamente registrata. Ma non c’è denuncia, né compiacimento estetico: ciò che Tulli mette in scena è un’esperienza di sospensione, un limbo in cui la carne e il codice digitale si confondono, generando un nuovo tipo di solitudine.
La solitudine di Real non è semplicemente isolamento sociale, ma un’esperienza di dislocazione ontologica. I corpi non sono più solo presenze fisiche: sono estensioni di reti invisibili, proiezioni simultanee in più spazi. Eppure, anche in questa dispersione, rimangono vulnerabili, percorsi dal desiderio di connessione. “Ogni tecnologia è una protesi dell’anima”, si potrebbe riassumere così il pensiero di McLuhan: e Tulli sembra muoversi proprio su questa soglia, in cui l’amplificazione tecnica del corpo produce al tempo stesso un’espansione e una perdita.
La macchina da presa osserva persone che si toccano attraverso gli schermi, che si esibiscono in dirette, che costruiscono legami dentro mondi sintetici come quello di VR Chat, luoghi che pure hanno una densità reale. L’universo virtuale, suggerisce il film, non è un altrove illusorio ma un piano ulteriore del reale, un’estensione della nostra esperienza incarnata. In questo senso, Real sfida ogni dicotomia tra “vero” e “falso”, “presenza” e “assenza”: il virtuale è reale perché produce effetti reali sui corpi, sulle emozioni, sulle relazioni. È ciò che Jean Baudrillard avrebbe chiamato “iperrealtà” — non il contrario del reale, ma la sua mutazione più profonda.
All’interno di questo nuovo regime percettivo, il corpo diventa campo di tensione e di resistenza. Dissente non con la parola, ma con la postura, con l’intermittenza del contatto, con la fatica di restare vivo in un ambiente saturato di connessioni. Tulli filma gesti minimi — dita che scorrono su uno schermo, occhi che fissano un volto mediato dalla luce blu — restituendo loro la densità politica che spesso dimentichiamo. Sono corpi che cercano di ridefinire la propria presenza, che tentano di esistere nonostante la disintegrazione dei confini tra fisico e digitale.
In questo senso, Real può essere letto anche come un film sul potere e sulla possibilità della dissidenza nel mondo contemporaneo. Quando il controllo passa attraverso gli algoritmi, dissentire non significa più gridare contro un nemico visibile, ma sottrarsi, rallentare, esporsi alla fragilità. È una ribellione che avviene nella materia stessa del corpo: nella stanchezza, nell’inadeguatezza, nell’eccesso di stimoli che lo attraversano. La dissidenza non è un gesto eroico, ma un modo di abitare diversamente lo spazio — fisico o virtuale che sia.
Se Baraka e Samsara di Ron Fricke, due grandi sinfonie visive sull’interconnessione del mondo, cercavano una trascendenza nel movimento globale, nell’armonia cosmica delle immagini, Real ne rappresenta il contrappunto disincantato. Là dove Fricke costruiva un’esperienza contemplativa, un canto planetario sull’unità del vivente, Tulli filma la frammentazione: l’impossibilità di una visione totale. In Baraka e Samsara, la macchina da presa scorre sul mondo come un occhio divino; in Real, invece, lo sguardo è immanente, incarnato, confuso nella materia stessa dei corpi e delle interfacce.
La spiritualità di Fricke nasceva dall’immersione nella natura, quella di Tulli dall’immersione nel digitale. Entrambi i mondi, però, generano una forma di trascendenza: nei film di Fricke l’illuminazione passa per la meraviglia, in Real per la consapevolezza della propria solitudine.
E in questo passaggio temporale — tra il sacro panottico di Samsara e l’intimità algoritmica di Real — si consuma la metamorfosi del corpo contemporaneo. Non più un punto nello spazio fisico, ma un crocevia di dati, desideri e rappresentazioni.
In una delle sequenze più emblematiche, un gruppo di avatar danza in una stanza digitale, mentre il suono, ipnotico e monotono, dissolve la distinzione tra realtà e rappresentazione. È lì che Real trova la sua verità: nell’oscillazione tra presenza e assenza, tra il bisogno di essere visti e la paura di scomparire. Il corpo resta il punto di crisi, il nodo in cui il mondo virtuale si fa carne e il mondo fisico si fa spettro.
Riconoscere che l’umanità contemporanea è ormai ibrida, attraversata da linee di codice, pixel e desideri, forse qui sta la “verità” del documentario. Non si tratta di opporre il reale al virtuale, ma di comprendere che entrambi coesistono in una forma di realtà ampliata, in cui l’esperienza sensibile continua a cercare se stessa.In Real, la solitudine è il sintomo e la condizione di questa ricerca: un vuoto che non separa, ma connette. Un corpo che dissente non perché rifiuta il mondo, ma perché tenta, ostinatamente, di ritrovarlo.

