“CHAPITEAU. UN CIRCO, UNA FAMIGLIA” di Adriano Sforzi

“CHAPITEAU. UN CIRCO, UNA FAMIGLIA” di Adriano Sforzi

Quando ero bambina, una domenica mia madre portò me e mia sorella al circo. Avrò avuto sei o sette anni, mia sorella cinque più di me, non ci eravamo mai state prima e non ci saremmo mai tornate dopo. È stato un unicum di cui non ricordo molto: tanti spettatori in uno spazio abbastanza ridotto, la curiosità di vedere degli animali che ora non sono sicura ci fossero davvero, artisti che giocavano con fiamme enormi come non ne avevo mai viste. Ricordo una certa sensazione, se non di paura, per lo meno di insicurezza. Io, una bambina che aveva paura anche della sua stessa ombra, ero in un contesto totalmente fuori dalla mia comfort zone, lontana da casa – nella mia percezione di bambina 15 chilometri erano un’infinità -, a fare qualcosa che non avevo mai fatto. Che in quel momento dovessi fare semplicemente la spettatrice poco importa. Riesco a visualizzarmi lì dentro, sotto il tendone: davanti a me avevo persone così diverse, così spavalde, mentre io avevo lo sguardo un po’ perso. Uno sguardo che mai è passato negli occhi sicuri e fieri di Manuel, Danny, Alex e Soemi, giovanissimi protagonisti di Chapiteau. Un circo, una famiglia.

A sei o sette anni il suo regista Adriano Sforzi – a differenza mia – il circo lo conosceva bene.

Erede di un’antica famiglia circense, fino ai 15 anni ha girato l’Italia in roulotte, macinando ben più dei 15 chilometri che nella mia sedentaria percezione della vita infantile erano considerabili una lunga distanza. Adriano Sforzi è cresciuto con il circo nel sangue e il destino in parte già scritto. Il circo è rimasto lì anche quando lui si è reso conto che performare non era la sua strada. La sua strada era raccontare, e percorrerla lo ha portato a dare forma a storie che il circo lo hanno narrato da un punto di vista nuovo, più intimo. Quella di Chapiteau è una di queste.

Il documentario racconta l’anima più profonda del Circo Gravity, un’anima che porta nomi e cognomi ben precisi. Sono quelli di Davide “Mr. David” Demasi ed Elena Timpanaro, volti cardine dello show, e soprattutto quelli di Manuel, Danny, Alex e Soemi Demasi, i loro figli. Quelle scelte dai genitori sono vite itineranti, che conoscono il movimento, lo spostamento, il bisogno e la capacità di mantenersi in equilibrio anche in condizioni avverse. Quelle dei figli invece sono – almeno in un primo momento – vite definite ancora a metà, tra la sedentarietà della scuola settimanale e la possibilità di dare sfogo all’arte circense e al proprio bisogno di libertà nel tempo libero. È un continuo fare avanti e indietro, il loro personale modo di essere in itinere. Questo almeno fino a quando non arriva il momento di realizzare il sogno condiviso di genitori e figli: il debutto sotto lo chapiteau, ognuno con la propria specialità, nel rispetto delle proprie preferenze e abilità. Da un lato una sorta di gioco da fare insieme; dall’altro un battesimo del fuoco.

Manuel, Danny, Alex e Soemi sono quattro giovani corpi dissidenti.

Giovani corpi dissidenti che crescono senza paura, senza timore alcuno di cadere anche se la distanza che li separa dal suolo non è di quelle che generalmente rendono sereni. Sono sicuri, hanno lo sguardo fiero e un senso di libertà che raramente appartiene alla vita contemporanea. Mentre guardavo Chapiteau mi sono chiesta: chissà se hanno mai sperimentato la paura come la conosce la stragrande maggioranza delle persone. Chissà se percepiscono il rischio come lo percepisco io che lo vedo ovunque, in ogni punto lontano più di un centimetro dal mio naso. Insomma, sono pur sempre la bambina spaventata del primo paragrafo, cosa vi aspettavate.

Pensavo a me, alla suddetta bambina timorosa, piena di ansie frutto delle ansie di chi mi ha preceduta. Poi guardavo loro, prova provata che l’ansia non è genetica: si apprende. È un insegnamento involontario che proviene dai nostri genitori, dalla nostra famiglia, dalla società tutta. Un insegnamento che facciamo nostro e diffondiamo a nostra volta. È un modo di vivere che costruisce confini, limiti che ci sembrano invalicabili, muri davanti alle possibilità. A fare fatica ad abbatterli cominciamo presto e non finiamo mai. Ma così facendo, quante volte ci perdiamo la parte bella della cose? La possibilità di godercele davvero? Quante volte non riusciamo a fare quello che vogliamo nell’accezione più libera del termine, accontentandoci di ciò che invece non ci soddisfa e non ci appartiene?

Libertà: ecco qual è la parola chiave di Chapiteau.

La vita al circo è una vita libera, ma libera non significa senza regole. Quando Manuel, Danny, Alex e Soemi smettono di andare a scuola cominciano a studiare in casa quanto o forse più di prima. Affiancano allo studio gli allenamenti, le prove, l’esercizio fisico che gli permette di riuscire in ciò che devono. È un impegno fisico e mentale, e oltre a essere una passione diventa un dovere. La libertà sta nel modo in cui questo dovere viene portato a compimento: seguendo i loro tempi e le loro modalità, esprimendo se stessi, dando loro la possibilità di fare ciò che davvero li rappresenta. Sono spronati a esprimersi e sono spronati a farlo per se stessi prima che per il pubblico. Sono spronati ad andare oltre i propri limiti, a non tirarsi indietro, a fare sempre un passo in più.

E allora forse il punto non è smettere di guardare la vita come una performance. Forse il punto è cominciare a guardare la nostra performance di vita come qualcosa che facciamo non solo per chi ci osserva, ma prima di tutto per noi. Per riprenderci la nostra libertà, quella che ci spetta di diritto. E debuttare, anche noi, come se fosse un gioco.

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