MEET THE SHORTS!

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Proiezione di corti di regist3 under 35

Esiste un’unità di misura del racconto audiovisivo? E se sì, qual è? Sono i minuti che impiega per dispiegarsi, dall’inizio alla fine? Sono le lacrime o i sorrisi che provoca a chi lo vede, lo ascolta, ne fruisce? Sono le riflessioni che stimola o le emozioni che suscita? Perché no, l’unità di misura di un racconto magari è una combinazione di tutte. O forse, ancora, non è nessuna di queste.

Lacrime e sorrisi, riflessioni ed emozioni sono gli elementi più soggettivi del racconto audiovisivo: nessuno può piangere, ridere, riflettere, emozionarsi esattamente come qualcun altro, ognuno influenzato dal suo passato, dal suo contesto, da ciò che lo ha fatto soffrire e gioire, che lo ha toccato nella vita. Il tempo invece, quello è un altro paio di maniche. È l’unica unità di misura in grado di essere oggettiva e soggettiva insieme, perché due minuti saranno sempre due minuti, ma come li percepiamo è tutta un’altra cosa. Se un racconto ci prende, il tempo vola. Se un racconto non ci prende, ogni minuto è infinito.

Questa è un’epoca strana per misurare il tempo di un racconto audiovisivo. Al cinema i film si stanno dilatando, le grandi serie si concludono con finali di stagione da due ore – che sono praticamente dei film anche se non sono definiti come tali. Abbiamo sempre qualcosa in più da dire, da mostrare, e sembra che il tempo non basti mai, che non sia mai abbastanza. A fare la differenza e sfidare questa dinamica che fa della dilatazione dei tempi un obiettivo più che un mezzo, restano i cortometraggi, esperimenti narrativi che fanno invece della brevità la loro ragion d’essere. Cosa si può dire in pochi minuti? Il minimo indispensabile? L’essenziale?

Molto di più: in pochi minuti si può dire tutto.

Nei 15:11 minuti di Bobby Erica De Lisio porta avanti – attraverso la presenza e l’assenza di un cane da guardia – un viaggio generazionale in un’Irpinia fatta di tradizioni e modi di vivere, di distruzione e di vita che continua a scorrere.

Nei 10:24 minuti di Mutar Maria Elena Franceschini riflette sul tempo che passa e sulla distanza che si frappone tra le persone mentre la vita accade. Corriamo, ci dividiamo, poi ci ritroviamo. Ci cerchiamo sempre, oltre lo spazio e il tempo.

Nei 21:26 minuti di Un modo di sorridere insolito Veronica Orrù esprime la nostalgia del passato che in quanto tale non può tornare, ma che possiamo far rivivere proprio attraverso la visione di ciò che fu. Le immagini di una famiglia non sua – e così diversa da ciò che la sua è stata – diventano così non solo strumento di narrazione, ma di ricordo e memoria. E strumento per esprimere l’idea che ciò che non è stato avrebbe comunque potuto essere.

Nei 4:02 minuti di Forse i sogni devolvono le ossa Valentina Pietrarca, Claudia Persia e Aman Novara raccontano una vita e tante, un mutamento di percezione e di prospettiva, che tra l’ampiezza dello spazio e lo scorrere del tempo definiscono un mondo fatto di elementi che si avvolgono, uniscono, fondono.

Nei 10 minuti di Colazione sull’erba Agnese Cappellazzo e Anna Candiani raccontano un momento semplice come un pic-nic che, tra il rilassamento e il gioco, si fa rituale collettivo che unisce passato e presente.

Nei 9:08 minuti di Rifrazioni Lucia Magnifico, Ottavia Carradore e Matheew Carrillo Marentes ci parlano di etichette, costruzioni culturali e della volontà di uscirne, di dare un nuovo nome alle cose e ampliarne la prospettiva. Perché ogni esperienza di vita influenza ciò che percepiamo, e ogni percezione è unica e preziosa.

Nei 4:51 minuti di Moving reminds me to breathe Isotta Carpaneto, Silvia Marini e Alice Visconti palesano ciò che i nostri movimenti quotidiani – sempre più veloci, sempre più forti, sempre più ansiogeni – vogliono nascondere: la difficoltà di restare fermi, in silenzio. Semplicemene a respirare.

Sette corti, quattordici giovani menti under 35 che hanno costruito racconti diversi e vari con un elemento in comune: il riuso creativo degli archivi di famiglia, fonte infinita di immagini, suoni e sensazioni. L’archivio, quel luogo in cui il passato di ciò che vi è inserito incontra il presente di chi ne fruisce, diventa un luogo sacro, custode di ciò che è stato e origine di ciò che sarà. Origine di racconti nuovi, di visioni diverse, di rielaborazioni personali di necessità collettive e comuni.

I volti di famiglie che non sono nostre ma che – proprio come le nostre – sono state di qualcuno ci guidano tra un corto e l’altro in un percorso intricato ma coerente. Un percorso che non è asettico, ma ricco di umanità. Bambini e adulti, uomini e donne, visi sorridenti e seri ci accompagnano in pochi minuti alla scoperta di un passato che ha più che mai ripercussioni su di noi, ci orienta, ci aiuta a guardarci attorno. Abbiamo ancora bisogno del passato per capire il presente. Abbiamo ancora bisogno del passato per creare il futuro. Abbiamo ancora – e sempre – bisogno dello sguardo di chi sa leggerlo a farci da bussola, tra il bianco e nero e i colori. Il tempo lo mettono loro. Il resto – lacrime e sorrisi, riflessioni ed emozioni – lo lascio a voi.

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