“FROM GROUND ZERO” di autori vari
Dice che ci sono film che nascono da un’urgenza, e io tendenzialmente ci credo. Poi però ci sono film che nascono evidentemente da un trauma, e forse sono ancora più necessari. From Ground Zero è uno di questi: un gesto collettivo, un’ipotesi di esistenza filmata mentre tutto intorno muore. Ventidue cortometraggi girati da giovani cineasti di Gaza, molti sotto i trent’anni, alcuni formati alla scuola di Rashid Masharawi, che da decenni è la voce più coerente del cinema palestinese. Ma qui non c’è un autore, c’è una moltitudine, c’è una coralità che si impone come corpo unico, fragile e resistente, che si muove tra documentario e finzione poetica per raccontare la vita nella tendopoli, dopo la distruzione, dopo che il mondo è finito.
In un’epoca in cui Gaza esiste quasi solo come notizia, From Ground Zero ricompone invece un’altra geografia dell’immagine. È il tentativo di sottrarsi alla rappresentazione imposta, di filmare non la guerra ma la sopravvivenza, non la morte ma la quotidianità, non il martirio ma il gesto minimo, anche quando la camera a mano segue le madri che scrivono il nome dei figli sulla pelle per poterli riconoscere tra le macerie, o quando mostra l’acqua che scarseggia e la polvere che avvolge la dignità che resta. Ogni corto è un frammento, ma insieme tutti questi frammenti formano una continuità, un quadro, il montaggio di un respiro.
È così che Il film testimonia e mostra e ci chiede di guardare. Nella precarietà tecnica – camere traballanti, suoni sporchi, montaggi irregolari – si riconosce la verità di un cinema che non cerca la perfezione ma la presenza. È un cinema che si costruisce dentro il vuoto, un cinema che non imita la realtà ma la vive, un cinema che non ha distanza. Ogni fotogramma sembra fatto di macerie e di sangue e di luce.
Eppure, credetemi, From Ground Zero non è un film sulla sofferenza, quanto piuttosto sulla dignità, sulla capacità di ridere, danzare, disegnare, perché è un film che rifiuta il ruolo di vittima e rivendica quello di autore. In questo senso, è un gesto radicale di auto-rappresentazione: finalmente non siamo più davanti a un popolo raccontato dagli altri, ma a un popolo che riprende in mano la propria immagine, la propria storia, la propria narrazione. Nessuno parla “per” i palestinesi: sono loro a parlare, a filmare, a montare, a decidere cosa mostrare e cosa no. È il cinema che diventa soggetto politico, il linguaggio che si emancipa dalla mediazione occidentale e si riappropria del diritto di dire “io”.
Ogni corto, ogni volto, ogni inquadratura diventa così un corpo dissidente. Dissidente già solo perché esiste ancora, perché rifiuta di essere ridotto a cifra statistica, a sagoma anonima nei telegiornali. Sono corpi che rischiano la vita per filmare, che scelgono di farsi vedere, che rifiutano la neutralità e la distanza. E dissidente perché filmare in queste condizioni è un dispositivo di resistenza, come respirare sotto l’assedio.
From Ground Zero ci costringe a discutere con il nostro sguardo, con la nostra abitudine all’immagine filtrata, con la nostra distanza comoda. Si tratta proprio di un’altra grammatica della visione: il tempo dell’attesa, la lentezza del dolore, la luce che non si spegne. È un’opera collettiva che nasce dal nulla e crea un linguaggio nuovo, un cinema che non ha bisogno di perdono né di spiegazioni.
Guardarlo significa accettare di non capire tutto, ma di vedere davvero. E forse è proprio questo, oggi, il gesto più radicale possibile: lasciare che siano loro, i giovani di Gaza, a riprendere la parola, a occupare lo schermo, come estremo e unico atto di libertà possibile.

