“RULE OF STONE” di Danae Elon

“RULE OF STONE” di Danae Elon

C’è un momento, in Rule of Stone, in cui il rumore di uno scalpello diventa quasi un battito cardiaco. Non è solo il suono della costruzione, ma anche quello della cancellazione. La regista Danae Elon filma Gerusalemme come un corpo che non smette di ricostruirsi sopra le proprie ferite, un organismo che trasforma la violenza in estetica. La pietra, imposta per legge come rivestimento di ogni edificio, è la pelle di questa città: “obbligatoria e bellissima”, ma anche menzognera. Una bellezza uniforme che maschera l’asimmetria, una regola nata per conservare e che è finita per espellere e cancellare.

Una legge israeliana, quella rule of stone che dà il nome al documentario, impone che ogni edificio della capitale sia costruito o rivestito con la pietra di Gerusalemme. Un dettaglio tecnico che diventa dispositivo ideologico: la città appare unitaria, armoniosa, “eterna”. Ma quella continuità è una costruzione narrativa, un racconto di pietra che serve a cancellare le fratture. Elon mostra come la bellezza diventi un’arma: dietro le facciate uniformi si nascondono demolizioni, appropriazioni, quartieri palestinesi cancellati per far spazio a un’estetica nazionale.

Nel documentario, Elon alterna materiali d’archivio e interviste per restituire la frenesia costruttiva che ha attraversato Gerusalemme a partire dagli anni ’60. L’architetto Moshe Safdie, interlocutore centrale del documentario, incarna la contraddizione nel progetto urbanistico di Gerusalemme. Nei suoi discorsi l’idealismo dell’architettura moderna – quella che vuole “unire vecchio e nuovo” – convive con un cieco pragmatismo. Safdie racconta di essersi ispirato ai villaggi palestinesi per i suoi progetti: l’armonia tra uomo e paesaggio, le case che si arrampicano sulla topografia come organismi vivi. Ma la sua opera si sviluppa proprio dove quei villaggi sono stati demoliti. È il paradosso più amaro del film: l’appropriazione estetica come forma di espulsione. L’architettura, che dovrebbe dare forma al vivere, diventa qui un dispositivo per regolarne l’impossibilità per i Palestinesi.

Elon non giudica con rabbia, ma con lucidità. Fa emergere la follia di una città che pretende unità mentre istituzionalizza la separazione: che costruisce quartieri ebraici su terra confiscata e li chiama “integrazione”. L’architettura è il linguaggio perfetto per questa menzogna, perché sa dissimulare la violenza dietro il lessico della bellezza. Il cemento e la pietra diventano “atti di guerra differita”: ciò che viene edificato è anche ciò che distrugge. I palestinesi, costretti a demolire le proprie case o a pagarne la distruzione, vivono in un cortocircuito tragico: sono gli stessi che scolpiscono le pietre con cui si costruiscono gli spazi da cui vengono esclusi. Elon mostra i loro volti, i loro gesti, senza retorica.

La regia amplifica questa tensione con un linguaggio visivo calibrato: la fotografia cattura la luce dorata della pietra, ma indugia sulle macerie e sulle assenze; i movimenti di macchina oscillano tra panoramiche urbane e inquadrature ravvicinate dei volti, quasi a suggerire che dietro ogni muro invisibile c’è una storia che si è voluta cancellare. Rule of Stone non si limita quindi a denunciare: mette in crisi la bellezza stessa, la sua complicità. Dal punto di vista filmico è rigoroso ma mai sterile e architettonicamente invita a una riflessione urgente sul potere delle forme.

Spiazzante sul finale la lucidità con cui Elon cerca di voler smascherare, senza mai ottenere un’ammissione di colpa, la complicità degli architetti: non come meri esecutori di un progetto urbanistico, ma come agenti di un’ideologia silenziosa. In questo finale, risuona l’invito morale di Hannah Arendt: «Nessuno ha il diritto di obbedire». Un motto che ha attraversato le difficoltà del pensiero politico e che qui ricorda che ogni progetto, anche quello più “estetico”, contiene sempre una scelta.

Il finale è un gesto minimo ma potentissimo: un tagliapietre palestinese che ricostruisce la propria casa distrutta. Non una redenzione, ma il diritto all’ abitare contro ogni costruzione ideologica. Con Rule of Stone Danae parla di architettura per raccontare le bugie del potere e fa quello che gli architetti del suo Paese non hanno avuto il coraggio di fare: guarda la città senza estetizzarla, ascolta il rumore del suo cuore malato e ne registra la bellezza come crimine. In questo senso, è uno dei documentari più radicali degli ultimi anni: perché smonta la pietra per mostrare la vita che, nonostante tutto, ancora pulsa sotto di essa.

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