FLOW
Flow è una poesia muta.
L’avventura di un gatto in un mondo post-apocalittico, un viaggio che condivide con un capibara, un lemure, un labrador e un serpentario (e una balena), in mezzo a continue alluvioni di dimensioni bibliche.
Gli esseri umani non sono presenti e questo è molto bene altresì Zibalodis sceglie di non antropomorfizzare i protagonisti al fine di non renderli persone in costume da carnevale, chapeau.
Educati ad esorcizzare il silenzio condiviso, Flow dimostra che una sala dove regna il non parlato è un’esperienza incredibilmente pacifica, piena di cose da dire, senza dire niente.
Lontano da serie compresse e da film dove deve succedere tutto subito, Flow è un inno alla lentezza impregnato da un senso continuo di morte che scatena un intenso senso di gratitudine. É ambizioso e ti pone davanti a dilemmi morali, il ciclo di ciò che è una fortuna per te e la disgrazia di qualcun altro, l’individualismo, l’istinto, il destino comune. Un’allegoria incantevole fertile di simbologie il cui aspetto ricorda i videogiochi indipendenti di fine anni ’90.
É folle e di conseguenza incredibilmente coraggioso, in un mercato consumato dall’estetica pop da grande distribuzione, ritrovare la purezza del non doversi vendere.
La quiete che aleggia in cima a una montagna con un cielo da tempesta dove un uccello sta per spiccare il lungo addio. Un sogno.