Parthenope: Il cinema come esercizio dello sguardo

Parthenope: Il cinema come esercizio dello sguardo

Trama

Parthenope è la storia di una donna, nata nel 1950 a Napoli, che attraversa la seconda metà del Novecento portandosi dietro un destino singolare: la sua bellezza sconvolgente, quasi irreale, è sia una benedizione che una condanna. Dalla giovinezza vissuta tra le spiagge e gli ozi partenopei, fino alla maturità segnata da studi di antropologia e da una consapevolezza più lucida, il film segue la sua traiettoria esistenziale, fatta di desideri, assenze, incontri e solitudini. Attorno a lei, figure maschili e femminili che si incantano, si smarriscono, si consumano nella sua orbita. Ma Parthenope, pur essendo al centro, resta misteriosa, distante, inafferrabile. Una presenza che non appartiene mai del tutto a ciò che le accade, come se fosse sempre un passo più in là, o più indietro, rispetto alla vita stessa.

Il naufragio nella bellezza

Il ritorno di Parthenope nelle arene estive riporta al centro dell’attenzione uno dei film più ipnotici di Paolo Sorrentino: un oggetto cinematografico che si concede come un lento naufragio nella bellezza, nel tempo. Come prassi del regista, non un film da comprendere, ma da attraversare. O forse, da imparare a guardare.

Un disturbo visivo di nome Parthenope

Parthenope (Celeste Dalla Porta) è una giovane donna che non cambia il mondo: lo distorce. La sua bellezza, totale, innaturale, miracolosa, è al tempo stesso dono e condanna. Le persone che la circondano, da suo fratello Raimondo (Daniele Rienzo) all’amico Sandrino (Dario Aita), non la comprendono mai davvero, ma la subiscono. E lei, nel frattempo, resta emotivamente distante, intrappolata in una dimensione fuori sincrono con la realtà che la desidera. Così Sorrentino costruisce un film in cui la protagonista non è tanto un personaggio quanto una presenza: un disturbo visivo che altera la frequenza narrativa del film stesso.

Chi guarda chi?

Accusato da molti di indulgere nello sguardo maschile, Parthenope sembra piuttosto proporre una riflessione sullo sguardo stesso. Sorrentino da sempre esaspera volutamente il modo in cui il suo cinema guarda il mondo, con estetismo, lirismo, compiacimento visivo, per porre, questa volta più di altre, una domanda più profonda: noi spettatori, sappiamo guardare davvero? La protagonista ci chiede costantemente di guardarla, ci sfida a non farlo, ci costringe a confrontarci con il nostro desiderio visivo. Non è solo oggetto dello sguardo: è il suo detonatore.

Dal miracolo alla consapevolezza

C’è, nel passaggio dalla giovinezza alla maturità di Parthenope, un movimento sottile ma significativo. Nella seconda parte del film, la protagonista diventa antropologa: studia l’impatto dei miracoli sugli esseri umani. È un dettaglio che vale come chiave di lettura dell’intero progetto. Ciò che prima era miracolo incarnato, ora si fa coscienza, riflessione, distanza. Da catalizzatore diventa osservatrice. Da oggetto incantatore diventa soggetto pensante. È il momento in cui la bellezza, dopo aver generato disordine, si trasforma in sapere, in memoria, in racconto. Invecchiando, Parthenope perde la sua forza dirompente, ma diventa consapevole. Rimane accattivante, ma l’impatto della sua presenza si sposta da una forza che frantuma a una che si stabilizza.

Il tempo del desiderio

In questo senso, il film è anche una parabola sulla potenza e l’inevitabile normalizzazione del miracolo.
Qualsiasi rivoluzione – estetica, politica, emotiva – prima o poi si stabilizza, si fa sistema, si archivia. Il desiderio, come la bellezza, ha un tempo. E Sorrentino sembra chiederci cosa resta, quando quel tempo finisce.

L’illusione è sopravvivenza

Molti hanno accusato il film di non avere un arco narrativo, ma il suo arco è meno lineare e più profondo: è la lenta, impietosa scoperta che non si può vivere solo di illusioni, e che al tempo stesso non si può vivere senza. Parthenope, in fondo, ci porta lì: alla domanda che tutti, prima o poi, si fanno. Che cosa sta pensando davvero, in quel finale silenzioso? Forse che l’amore “per sopravvivere” non è stato un fallimento. Forse che le illusioni non sono una debolezza, ma una forma di adattamento.

Imparare a vedere

Perché la vita è insopportabile, e le illusioni servono a renderla vivibile. Ogni bella giornata ha una fine, ed è proprio questo a renderla irripetibile. Saper vedere, davvero vedere, ha un prezzo. E accettarlo significa entrare nel tempo degli adulti. O si accoglie questa consapevolezza, o si resta fermi, immobili, in attesa di qualcosa che non accadrà più. Ma non bisogna scoprirlo troppo presto: c’è un tempo giusto per imparare a vedere. E, soprattutto, non dobbiamo mai smettere del tutto di aggrapparci a quei sogni, anche quando sappiamo che sono sogni.

Perché sono vitali. Perché sono nostri. E perché il cinema – come Napoli per Sorrentino – resta uno dei pochi luoghi dove l’illusione è ancora possibile, ancora potente, ancora viva

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