“COME SE NON CI FOSSE UN DOMANI” di Riccardo Cremona e Matteo Keffer
Volti, corpi, urgenze: la resistenza civile nell’epoca dell’emergenza climatica
Cosa siamo disposti a fare quando non possiamo più permetterci di perdere? È questo il pressante interrogativo che attraversa Come se non ci fosse un domani, il documentario diretto da Riccardo Cremona e Matteo Keffer. Al centro, le azioni e le vite di Ultima Generazione, movimento italiano di disobbedienza civile nonviolenta che negli ultimi anni ha scosso l’opinione pubblica con azioni di protesta giudicate irruente, spesso criticate o criminalizzate.
Ma il documentario va oltre la superficie delle azioni: entra nel cuore, nel corpo e nella mente di chi, con ostinata determinazione, ha deciso di sacrificare sé stesso per scuotere le coscienze.
Disobbedienza civile è disturbare. È creare imbarazzo. È provocazione. Perché la conversazione che genera è più importante della precisione con cui viene rappresentato il problema. Un milione di persone che discutono, si indignano, si interrogano, producono un effetto pedagogico collettivo: un’ auto-pedagogia, in cui la coscienza pubblica evolve proprio attraverso lo scontro, il disagio e la reazione.
Girato con uno sguardo partecipe ma mai agiografico, il documentario porta sullo schermo volti, corpi e parole di chi ha deciso di rompere le regole – non per protagonismo, ma per necessità. Cremona e Keffer costruiscono un racconto diretto, spesso scomodo, che si muove sul filo della tensione tra urgenza morale e giudizio pubblico, tra idealismo e strategia, tra empatia e provocazione.
Non c’è filtro né retorica: la macchina da presa si avvicina con rispetto ma senza pudori, mostrando anche le contraddizioni, le paure e le fragilità di chi scende in strada e si incolla all’asfalto. Il risultato è un ritratto collettivo che mette in crisi lo spettatore, lo costringe a prendere posizione, a interrogarsi.
Il documentario si muove con lucidità tra interviste, immagini di protesta, momenti di preparazione e arresti, accostandosi, privo di sensazionalismo, a chi ha deciso di sacrificare la propria libertà per scalfire l’apatia collettiva.
Non si tratta di grandi numeri: è una minoranza che ripete, giorno dopo giorno, lo stesso messaggio: il governo deve agire. Azione dopo azione, corpo dopo corpo, arresto dopo arresto, la protesta si fa linguaggio. E ad ogni parola ripetuta, ad ogni gesto reiterato, il dissenso diventa impossibile da ignorare. Gente che viene arrestata, denunciata, picchiata. Non è più solo una battaglia di opinioni, non servono più talk televisivi e salotti politici: la crisi diventa visibile attraverso i volti e i corpi di chi ha deciso di non aspettare oltre. È lì, concreta, evidente, imbrattata di vernice a fissarci negli occhi. È reale, urgente, vicina.
Il film si inscrive anche in una riflessione più ampia sulla storia del dissenso in Italia. Il trauma del G8 di Genova nel 2001 aleggia come una ferita mai rimarginata. Allora lo slogan era Un altro mondo è possibile. Ma oggi, a distanza di quasi venticinque anni, la crisi climatica cambia i termini della questione: un altro mondo non solo è possibile – è indispensabile.
Come se non ci fosse un domani mostra un attivismo nuovo, radicale, spesso controverso, che non ha più tempo per la mediazione. Non è un’ode eroica, ma una testimonianza potente di resistenza civile, in un’epoca in cui non basta più indignarsi online: serve qualcuno che renda visibile il collasso, mettendoci faccia, vernice e voce.
E noi cosa leggiamo nel volto dell’attivista aggrappato all’asfalto? Un ostacolo da rimuovere, una voce fastidiosa da zittire o un cittadino che ha deciso di non voltarsi dall’altra parte?
Così quel titolo – Come se non ci fosse un domani – smette di essere una provocazione e diventa una possibilità reale, terribile. Non un’esagerazione retorica, ma un promemoria: se continuiamo a ignorare i segnali, se non invertiamo la rotta, potrebbe non esserci più un domani in cui bloccare le strade, o un domani in cui imbrattare monumenti – perché potrebbero non esserci più carreggiate da occupare o opere d’arte da difendere.
E chi oggi protesta, spesso fra l’indifferenza e il disprezzo generale, lo fa anche per chi ancora non riesce – o non vuole – vedere.

