“LA MUTANTE” di Constanza Tejo Roa

“LA MUTANTE” di Constanza Tejo Roa

Un “falso amico” è una parola in una lingua straniera che assomiglia molto a una parola della propria lingua madre, ma che ha un significato completamente diverso. Una delle trappole linguistiche più comuni per una persona che parla italiano quando si appresta a imparare lo spagnolo è l’aggettivo “embarazada”, che non significa “imbarazzata” ma “incinta”. “Embarazar” deriva dal latino imbaricare cioè “mettere nei barili”, “ostacolare”. In origine, “embarazar” significava quindi “ostacolare”, “impedire il movimento”. Col tempo, dunque, il verbo è passato a significare anche “essere impedito nel corpo”, quindi “essere incinta” nel senso di “avere un ingombro nel ventre”. 

Ed è proprio in questo senso che la regista cilena Constanza Tejo Roa analizza la sua gravidanza: un evento che le impedisce di lavorare e la tiene forzatamente lontana dal cinema, il suo “vero amore”. E il Cinema permea il documentario, rendendo la mutazione della gravidanza anche estetica: la regista frammenta la narrazione, alterna formati (digitale, VHS, found footage) e costruisce un linguaggio ibrido che parla di ibridazioni. 

La Mutante è la storia di un corpo che si trasforma e che non appartiene più a chi lo abita, ma che diventa pubblico, in quanto occupa lo spazio in virtù della sua unica funzione di incubatrice di una nuova vita. Nei nove mesi della gravidanza assistiamo al mutamento di un corpo che diventa alieno, sia nel senso metaforico di “alieno a sé stesso”, sia attraverso le immagini che mostrano una presenza aliena al suo interno, che si muove secondo la sua volontà e lo plasma a suo uso e consumo. 

Tejo Roa ci racconta della lenta e inesorabile perdita della sua individualità e della sua trasformazione in un oggetto pronto a sfornare vita, alla pari di un qualunque elettrodomestico che si comporta meccanicamente. E mentre lei attraversa questa metamorfosi, costruisce anche un contrasto silenzioso ma devastante con la figura del suo ragazzo. Lui non muta: continua a studiare, a uscire, a vivere nella linearità di un mondo che non lo tocca davvero. Il suo corpo resta intatto, la sua quotidianità immutata. Lei invece cambia, si trasforma, porta il peso fisico e simbolico della gravidanza da sola. È un disequilibrio antico, inscritto nella materia stessa del patriarcato: la donna che si fa corpo, che paga con la propria carne, mentre l’uomo resta fuori scena, illeso.

Ma il film non si ferma a questa asimmetria — la supera, o meglio, la rovescia. Perché intorno alla protagonista si muove un’altra costellazione di corpi: le donne della sua famiglia. Madri, sorelle, zie, nonne, amiche. Sono loro a circondarla, a sostenerla, a restituirle una lingua e una forza che non passa per la logica maschile del dominio o dell’abbandono, ma per quella, antichissima, della cura.

È lì che La Mutante trova la sua chiave più profonda: nel matriarcato come gesto di sopravvivenza, come alleanza che tiene insieme ciò che la violenza patriarcale tende a disgregare. Nella solidarietà femminile come forma di continuità, come sapere corporeo che si tramanda, che consola, che salva.

In questo senso, la mutazione non è solo biologica o identitaria — è politica. È il passaggio da un ordine di solitudine a un ordine di alleanza. È la scoperta che, anche quando tutto il resto si ritrae, le donne restano.

logo