28 anni dopo: un mondo che ignora l’apocalisse

28 anni dopo: un mondo che ignora l’apocalisse

Se in 28 giorni dopo di Danny Boyle, con Cillian Murphy nei panni di Jim, il virus della rabbia usciva dalla gabbia insieme alla scimmia, sulle note di “In the House, In a Heartbeat”, e se in 28 settimane dopo di Juan Carlos Fresnadillo la malattia veniva esplorata nelle sue anomalie e nei traumi affettivi che aveva provocato, ecco che in 28 anni dopo, con il ritorno del duo Danny Boyle e Alex Garland (sceneggiatore), la malattia si è ormai stabilizzata. E questa stabilità non si spezza più, ma diventa normalità. E genera nuovi modi di vivere e pensare.

È interessante notare come il modo in cui sono stati girati il primo e l’ultimo film – il primo con una Canon XL, l’ultimo con un iPhone 15 Pro Max – rifletta bene o male anche la società a cui è destinato il prodotto: non più la società delle videocamere digitali, ma quella dei cellulari. Personalmente, io non ero nemmeno nata quando uscì il primo capitolo, ma non servono ventitré anni per accorgersi di quanto l’umanità sia mutata. Ora abbiamo un nuovo modo di fare cinema: alta risoluzione, CGI, AI generative… tutte le grandi tecnologie della postmodernità.

E come viene rappresentata metaforicamente questa postmodernità nel cinema, se non con la solita apocalisse? Ecco di cosa ci parla, non così segretamente, 28 anni dopo: dei nostri 23 anni dopo. L’apocalisse, proprio come il virus della rabbia nel film, non scoppia più all’improvviso, ma è davanti ai nostri occhi, latente. Boyle ce la rappresenta come una condizione che si insinua nella normalità.
È una metafora della società in cui viviamo. Questa è la forza della trilogia di Boyle: ci mostra un’apocalisse che non si risolve con la distruzione, ma con una stasi. Un’epidemia che, seguendo la parabola R-T, si diffonde rapidamente, si insedia capillarmente e infine si stabilizza.
Da lì non si torna indietro: è un mondo nuovo, alterato. Cambiato.
Ma questo mondo nuovo rimane invisibile, e la Gran Bretagna viene messa in quarantena dal resto del mondo (e qui si anelano riferimenti alla Brexit).
Come ci viene mostrata la nuova società post-apocalittica dell’isola di Lindisfarne, dove si sono rifugiati i sopravvissuti al virus? Lindisfarne è un isola collegata alla Gran Bretagna da un lembo di terra, percorribile solo con la bassa marea, e che pertanto li protegge dagli infetti rabbiosi. La società che vi si è insediata pare medievale: non esistono più la tecnologia, le multinazionali, i centri commerciali e, banalmente, non ci sono più medici. Come se fossimo tornati a un’epoca primitiva, in cui le malattie erano morbi oscuri e incurabili.

Oscuri e incurabili: un po’ come ci veniva presentato il Covid-19, non poi così tanti anni fa. Non essendo una sociologa, la domanda che mi ponevo allora – e che mi pongo tutt’ora – era semplice, ma fondamentale: che cosa stava succedendo davvero all’essere umano?

La pandemia è stato il nostro piccolo tempo apocalittico: un’interruzione improvvisa, un evento che ha spogliato il quotidiano delle sue certezze. E la nostra paura è diventata così una narrazione. La pandemia ci veniva raccontata tutti i giorni, da giornali, governi, media come un mostro da combattere, una guerra da vincere. E noi ci siamo adattati, muniti di quella fantomatica resilienza che nel 2020 è stata proclamata “parola dell’anno”. Ma a quale prezzo? L’aumento dei disturbi mentali e del senso di solitudine e impotenza, il fallimento di molte aziende e i numerosi licenziamenti. E infine, al costo di reprimere ancora una volta quegli istinti più autentici che erano pronti a riaffiorare, flebili. Forse ciò che ci è mancato non è stata solo la libertà di uscire, ma la libertà di essere.


Forse, tutto sommato, sono due esigenze dell’essere umano di fronte all’apocalisse. Da un lato l’andare avanti imperterriti nonostante le nostre vite siano radicalmente cambiate, dall’altro cercare di preservare quella humanitas di cui parlava il commediografo latino Terenzio nel II sec a.C. anche quando l’unico obiettivo parrebbe quello di opporsi al male, senza tempo per prendersi cura di questo lato umano. Nel film di Boyle queste due esigenze sono rispettivamente incarnate dai genitori di Spike, il bambino protagonista (Alfie Williams). Il padre (Aaron Taylor-Johnson), da un lato, rappresenta il cieco desiderio di lotta e soppressione del nemico: ideali che vuole trasmettere al figlio anche a costo di mettere a rischio la vita del ragazzino di fronte a un branco di infetti. La madre, Isla (Jodie Comer), dall’altro, incarna la salvezza, la compassione, come mostrato nella scena in cui aiuta un’infetta a dare alla luce una bambina: simbolo di rinascita dopo il virus.

Spike si trova al centro, tra questi due poli dell’essere umano, ed è lacerato da questa contraddizione, intrappolato in una sorta di complesso edipico.
Non sa cosa sia giusto o sbagliato.
Combattere come una furia gli zombie, come unico e ultimo scopo della vita, o prendersi cura di quel che si è salvato.
E come Pin, il protagonista de I sentieri dei nidi di ragno di Calvino, guarda il mondo con occhi nuovi, ma già segnati.
È nato in una realtà post-apocalittica e non ha memoria del mondo “prima”.
Non può nemmeno immaginare cosa ci sia oltre la sua piccola isola, oltre una Gran Bretagna abbandonata e in quarantena da decenni. Lo chiede a Erik, il soldato svedese della NATO naufragato mentre pattugliava il Mare del Nord. E questo gli narra del nostro mondo.

Quello di Spike è un destino che parla anche del nostro presente.
Quel bambino, che proprio come me è nato in una realtà già mutata, è la rappresentazione dello stato d’animo collettivo che pervade le nuove generazioni.
La sua isola non è né parte dell’apocalisse né fuori: è in quel limbo.
Spike è un individuo che nasce in un luogo fermo nel tempo, in bilico tra la fine di un’epoca e l’inizio di qualcosa che non comprendiamo.
È la metafora di dove ci troviamo noi ora. Non fisicamente, ma interiormente, ci troviamo a cavallo tra il mondo che è già stato sopraffatto e travolto dall’apocalisse e il mondo che invece va avanti ignorando, appunto, questa apocalisse che ci circonda, vivendo nell’illusione di andare sempre verso la luce. Proprio come nel film il resto del mondo continua la propria corsa lasciando la Gran Bretagna a convivere con la rabbia, anche la nostra società spesso va avanti ignorando i detriti che il fiume del progresso lascia dietro di sé. Le scorie, le crisi ambientali e le disuguaglianze restano confinate, apparentemente lontane, ma non per questo meno reali o meno pericolose. Ci illudiamo che basti isolare un problema per risolverlo, ma ciò che scegliamo di non vedere rimane latente, pronto a riemergere.

Esiste una teoria filosofica, chiamata “teoria della balena bianca”, secondo cui il capitalismo globale e il mito del progresso si sono trasformati in una corsa cieca e ossessiva dell’umanità verso il dominio della natura e l’accumulazione di ricchezza, guidata dall’illusione di poter controllare la fortuna e il rischio. Un po’ come il capitano Achab nel romanzo Moby Dick di Herman Melville, che insegue la sua balena bianca fino alla rovina. Ora questo progresso si ritorce contro di noi, come la balena si ribella al capitano Achab: ha lasciato dietro di sé una scia di scorie e devastazioni che oggi emergono con forza, soprattutto nei paesi del Sud del mondo. Qui le ferite del progresso si fanno materia concreta: rifiuti tossici, terre avvelenate, oceani di plastica, malattie nuove. Eppure noi ce ne freghiamo.

In questo frangente come si comporta Spike? Questo film è anche un Bildungsroman. All’inizio il bambino è confuso, vive in una bolla addestrato da un padre a cui chiede: «Cosa c’è in quei villaggi, papà?».
«Niente che non abbiamo noi.» è la risposta.
Il bambino non si accontenta e si configura un po’ come Ulisse o Alice nel Paese delle Meraviglie: parte per la conoscenza, mosso dalla curiosità inculcatagli dal nonno, che gli ha parlato di un certo dottor Kelson (Ralph Fiennes), l’unico forse in grado di aiutare sua madre. Parte alla scoperta, vuole uscire dalla sua bolla.
E non è forse quello che dovremmo fare anche noi, uscire dalla nostra bolla e aprire gli occhi?

Tutto ciò mi ha ricordato una canzone dei Genesis, Firth of Fifth, che dice:
“The sands of time were eroded by / The river of constant change.”
Il tempo si sgretola, mentre tutto cambia senza sosta.
Ma cosa resta, davvero, dell’umano? Forse solo una confezione di bustine di the verde in un supermercato abbandonato.

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