Lo sbilico: l’apocalisse della mente

Lo sbilico: l’apocalisse della mente

«L’apocalisse come evento appartiene ancora all’ordine del narrabile. L’apocalisse come condizione sfida ogni rappresentazione», scrive il nostro direttore nell’editoriale estivo di BILLY. Quando abbiamo deciso di dedicarci al tema dell’apocalisse permanente, pensando a un libro che potesse descriverla, non mi sono venuti in mente i soliti romanzi sulla sopravvivenza in un mondo post-apocalittico stile La strada e company, ma un libro edito da poco da Einaudi: Lo sbilico di Alcide Pierantozzi.

Lo sbilico parla di una condizione di apocalisse permanente che non ha niente a che fare con alieni e bombe nucleari. Racconta l’apocalisse forse più temibile del nostro tempo: quella della mente. Pierantozzi ci trascina con lui nel buco nero del suo disagio psicologico, usando il suo corpo come uno strumento di rilevazione, capace di registrare ogni segnale di instabilità di una mente che cerca a fatica di restare a galla. Racconta la confusione, la tensione continua e la violenza di una psiche costretta quotidianamente a convivere col mostro più spaventoso di tutti: il malessere psicologico.

«Vivo lo sbilico e nello sbilico delle cose»

Noi di BILLY ci siamo dati il difficilissimo compito di continuare a guardare, a scrivere e a cercare parole per ciò che non ha più parole. Da questo punto di vista, credo che il libro di Pierantozzi assolva al compito fondamentale di descrivere ciò che sembra indescrivibile per definizione.

«Mi trovo in un avamposto della realtà, in corrispondenza di una dimensione che definirei indescrivibile se solo esistesse l’indescrivibilità»

Lo sbilico racconta una mente che vacilla, ma che non smette di cercare appigli. Non c’è redenzione, non c’è autoaiuto, ma neanche disperazione sterile. C’è un tentativo radicale di nominare con precisione la frattura: quella individuale, certo, ma anche quella collettiva.

Viviamo in una società che non sa che farsene del dolore psichico se non trasformarlo in problema tecnico. La sofferenza mentale è trattata come una falla da riparare in silenzio, preferibilmente in privato, senza disturbare l’efficienza generale. Come ha scritto Mark Fisher, il realismo capitalista non ammette alternative: se stai male, sei tu il problema, non il mondo che ti ha fatto ammalare. La depressione, l’ansia, il panico sono slegati dal contesto, ridotti a squilibri chimici, silenziati con farmaci o assorbiti da una narrazione auto-performativa che prescrive ottimismo, resilienza, gratitudine. Si parla molto di salute mentale, ma spesso senza metterne in discussione le condizioni di produzione.

Il punto, allora, è dare voce e parole al disagio, ma anche riconoscerne la struttura politica. Il neoliberismo ha dissolto ogni trama collettiva di senso e supporto. Il legame sociale si è rarefatto, la fragilità è diventata colpa, la cura è stata delegata a tecniche privatizzate. L’apocalisse non è più evento, ma condizione cronica. Come suggerisce Byung-Chul Han, la violenza oggi non viene più imposta dall’esterno, ma è introiettata: ci autocondanniamo a performare, a migliorarci, a funzionare sempre. La mente crolla, ma deve continuare a produrre. Il corpo vacilla, ma non deve rallentare. Lo sbilico non è una deviazione patologica: è la regola che non si può dire.

Ecco perché Lo sbilico non è solo un libro sulla malattia, ma un gesto politico. Nel suo barcollare, apre uno spazio: per riconoscere che il dolore non è un fatto privato, che il crollo non è vergogna, che stare male non significa essere sbagliati. È il mondo a essere instabile, non chi lo abita con fatica.

«Devo pensare di vivere in un mondo inspiegabile dove l’anomalia che rappresento è una tra tante»

Lo sbilico, allora, non è solo un titolo o una condizione personale: è una descrizione esatta dello stato del mondo. Un mondo in cui l’eccezione si è fatta regola, in cui la crisi individuale rispecchia un collasso più vasto, più profondo. È questo il volto dell’apocalisse oggi: non un’esplosione improvvisa, ma una deriva continua, un presente che si frantuma giorno dopo giorno.

Perché è di questo che si parla, anche se non lo si dice: dell’apocalisse come condizione permanente. Non un evento, non un lampo: una lunga durata fatta di crisi che non finiscono, di notti che non passano. Il tempo si è rotto, ma ci viene chiesto di fingere che scorra ancora. Il futuro è diventato opaco, ma dobbiamo continuare a progettarlo. Il presente è saturo, ma resta tutto sulle nostre spalle.

«È finito qualcosa ma non so cosa. Come se si fosse spezzata una catena silenziosa che reggeva il mondo»

«Non abbiamo la pazienza di ridurre le nostre visioni a concetti, e siccome non crediamo alla morte del tempo e mettiamo sempre in dubbio il passato, i nostri verbi sono coniugati tutti all’infinito»

In questo contesto, la malattia mentale non è solo una questione clinica: è anche una forma di resistenza biologica a un sistema che non contempla la fragilità. Ma attenzione: Lo sbilico non riduce il dolore a metafora. Non gioca con l’angoscia. Non sfrutta il lessico della depressione per fare letteratura. È un libro che parla di una persona che ha avuto bisogno di aiuto vero, di diagnosi, di cura. E lo dice. Nomina la terapia, la farmacologia, l’ospedale, la crisi, l’alienazione. Ma nomina anche il contesto che rende tutto questo così frequente, così taciuto, così difficile da reggere da soli.

In un tempo in cui l’apocalisse non è più un evento ma un orizzonte costante, Lo sbilico ci ricorda che la fragilità mentale non è una sconfitta individuale, ma un segnale di un malessere più profondo, collettivo e politico. Prendere parola su questa condizione e soprattutto darle parole nuove – come riesce a fare magistralmente Pierantozzi – significa sfidare il silenzio che ci circonda, smontare la narrazione che colpevolizza chi soffre e reclamare uno spazio di cura, attenzione e giustizia sociale.

Non si tratta di sopravvivere allo sbilico, ma di imparare a vivere dentro la sua instabilità, riconoscendo che proprio in quella frattura può nascere una nuova possibilità di senso.

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