GIURATO NUMERO 2: IL DILEMMA MORALE SECONDO CLINT EASTWOOD
Giurato n. 2, diretto da Clint Eastwood alla veneranda età di 94 anni, è un film che ci tocca da vicino, più di quanto potremmo immaginare. Un autentico dilemma morale, il dramma della coscienza, la relatività del bene e del male: cos’è giusto? Cos’è sbagliato?
Justin Kemp (Nicholas Hoult) è un giornalista e un futuro padre. Sua moglie, Ally (Zoey Deutch), è incinta della loro bambina. Quando viene selezionato come giurato (numero due) nel processo contro James Sythe (Gabriel Basso), un giovane accusato dell’omicidio della fidanzata Kendall (Francesca Eastwood, figlia del regista), Justin si ritrova coinvolto più di quanto avrebbe mai immaginato.
Su James pesano vecchie ombre: un’indole violenta, un litigio con la ragazza poco prima della sua morte, il tutto sufficiente per etichettarlo subito come femminicida. Ma quella stessa sera, nello stesso bar in cui era scoppiata la lite, c’era anche Justin. E mentre in aula i fatti vengono ricostruiti, qualcosa si riaccende nella sua memoria. Dopo aver ordinato un drink senza nemmeno berlo, il giurato n. 2 era uscito dal locale, era salito sulla sua Toyota verde e guidando sotto la pioggia aveva inavvertitamente investito un cervo. Forse.
Da quel momento inizia il suo tormento interiore, una spirale di angoscia e sensi di colpa a cui non riesce a resistere impassibile. È logorato, moralmente sconfitto. Il suo avvocato lo mette in guardia: con i suoi precedenti problemi di alcolismo, finirebbe dritto in prigione. E non può permetterselo, non ora che sta per diventare padre e vuole essere un marito presente.
Cosa farei, se fossi nei suoi panni?
È questa la domanda che ti assale per tutta la durata del film. Dalla prima scena all’ultima. E, lo assicuro, una risposta definitiva non arriva mai.
Chi, almeno una volta nella vita, non si è trovato davanti a un dilemma morale?
Se trovassi un portafoglio per terra con dentro mille euro, lo restituiresti prima di prenderne una parte? Lo faresti se fossi appena stato licenziato?
Se urtassi un’altra auto in un luogo isolato, dove nessuno ti ha visto, lasceresti il tuo numero in un bigliettino sotto il tergicristallo? E se il danno fosse talmente costoso da metterti in difficoltà economica?
Situazioni così possono capitare letteralmente a chiunque. Ma spesso, i dilemmi morali più profondi non riguardano il denaro, ma qualcosa di più grande: la libertà, la giustizia, la vita di un’altra persona.
Si potrebbero aprire infinite dissertazioni filosofiche a riguardo. Ma alla fine, ciò che il film ci ricorda è che la relatività del bene e del male è una questione antica quanto l’essere umano.
«Beh, a volte la verità non è giustizia»
È questa la frase pronunciata nel finale da Justin, ma quando la dice, è come se cercasse una conferma. Da un lato, un uomo che sta per diventare padre; dall’altro, un ragazzo che, con il senno di poi, ha perso la donna che amava. Ciò che è giusto per qualcuno può essere profondamente sbagliato per qualcun altro. Quale vita va sacrificata? Questo labirinto morale ci riporta a un esperimento svolto dal MIT Media Lab (Massachusetts Institute of Technology): la Moral Machine, ovvero una piattaforma che sottopone l’utente a situazioni estreme, scenari etici impossibili come quello del “trolley problem”, ovvero il carrello ferroviario che sta correndo sul binario fuori controllo. Chi sacrificare quando non ci sono alternative? Una persona incinta o tre pedoni? Un anziano o un bambino? Passeggeri o pedoni? Un medico o un criminale? Un essere umano o un animale? Sei tu a scegliere, quando sterzi. I risultati, raccolti da 4 milioni di partecipanti, provenienti da 233 Paesi e territori, mostrano chiaramente che non esiste una morale universale. La Moral Machine ci mette davanti al fatto che non esistono soluzioni perfette.
Quello che Eastwood è riuscito a fare in Giurato n. 2 è proprio questo: estendere un dilemma individuale a una dimensione universale e collettiva. Una tensione che è alla base di ogni guerra, di ogni conflitto ideologico o etico: la relatività del bene e del male. Il film ci fa dubitare della giustizia, per poi restituircela sotto una forma diversa, più fragile, più umana.
Perché la giustizia non è sempre una bilancia. A volte è un duello. A volte è un’illusione. Spesso, è un’utopia.
E mi sento di dire che, più di ogni altra cosa, la giustizia somiglia alla fede in Dio: non si tocca, non si misura, ma vive dentro ognuno di noi.
E questo dice molto sulla natura dell’uomo: un essere capace di fare cose buone e cose cattive, ma che non può mai essere ridotto solo a una o all’altra. L’essere umano, come ricorda Justin nel finale, è spesso “vittima di terribili circostanze”.
E proprio qui il film ci costringe a riflettere su quanto sia labile il giudizio personale, quante volte giudichiamo qualcuno sulla base di un’unica informazione, spesso superficiale, ignorando il complesso quadro generale.
In definitiva, Giurato n. 2 non è solo un legal thriller, ma un dramma etico che ci riporta all’eterno conflitto tra le leggi dello Stato e quelle della coscienza. Justin si trova intrappolato tra ciò che la legge impone e ciò che il cuore gli sussurra come giusto. Da un lato, l’obbligo di tacere per non distruggere la propria vita e quella della sua nuova famiglia. Dall’altro, la necessità viscerale di non contribuire alla condanna di un innocente. Mi fa pensare all’Antigone e a quelle che Sofocle definiva “leggi del cuore”, ovvero le leggi non scritte, il senso della giustizia più intimo, alcune volte contrapposto alle “leggi dello Stato”, fredde e inflessibili.




