Le onde del destino
Sono passati quasi trent’anni dal debutto in sala de Le onde del destino (Breaking The Waves), che venne proiettato per la prima volta al Festival di Cannes nel 1996 vincendo il Grand Prix Speciale della Giuria, e a rivederlo oggi la cosa che gratifica di più è che la sua forza resta immutata.
L’opera di Lars von Trier – la prima della cosiddetta “Trilogia del cuore d’oro” (a cui seguono Idioti e Dancer in the Dark) – per le sue tematiche è infatti estremamente attuale non solo per l’eterno dibattito tra fede e scienza che la caratterizza, ma anche per il ruolo della donna, qui oppressa dalla comunità patriarcale calvinista, che riesce alla fine a far sentire e a far valere la propria voce. Sì perché sono due donne le grandi protagoniste del film del regista danese.
Da una parte rimaniamo colpiti da come Bess (interpretata da una straordinaria Emily Watson) sia una figura capace di far riflettere noi stessi su dove saremmo disposti ad arrivare per amore di una persona specie se la persona amata è ammalata. Chi davanti a un proprio caro in ospedale non pensa che farebbe qualunque cosa in suo potere per farlo stare meglio o addirittura guarirlo? Ma saremmo disposti a pagarne il prezzo? Bess, che è una donna di buon cuore, ingenua e molto devota – dichiarata nel film come «malata di bontà» – vede nel compiacere il desiderio del marito Jan (Stellan Skarsgård) a trovarsi un amante perché poi possa raccontargli i loro rapporti sessuali e in qualche modo farlo sentire meglio e connesso sessualmente ancora con lei, una prova che Dio le chiede per dimostrare il suo amore. Bess si aggrappa alla sua fede, al suo rapporto con Dio con cui intrattiene dei dialoghi, che poi questi ultimi siano frutto di pazzia, di un potere divino o che Dio sia la voce della sua coscienza non importa e non ci deve importare.
L’altra grande protagonista è Dodo (una bravissima Katrin Cartlidge), cognata di Bess e rimasta dentro la comunità calvinista dopo la morte del marito per restare accanto a lei, un personaggio dotato di una grandissima forza d’animo che prova a spingere la cognata a non essere succube del marito, ma ad agire secondo il suo pensiero poiché «una donna deve scegliere da sola», nonché l’unica a prendere la parola contro i sacerdoti accusandoli di non potersi permettere di giudicare Bess.
Grazie alle sue eroine che si muovono dentro una regia priva di particolari artifici, Le onde del destino lo sentiamo (ancora) nostro perché parla a noi e di noi nei nostri drammi quotidiani e esistenziali: il dottor Richardson chiede a Bess quale sia il suo talento e lei risponde «I can believe» («Io riesco a credere»), tuttavia pure lei teme che quello che sta facendo non sia la soluzione: «Ho paura che sia tutto sbagliato». Nel suo essere una figura cristologica anche Bess, come Cristo in croce, pensa di aver sbagliato, solo il finale darà la risposta al suo dubbio.
Qual è il nostro talento invece? A cosa ci aggrappiamo? Alla fede? All’amore? A un debito di coscienza? Magari anche noi alla fine aspettiamo che suonino le campane.


