Berlinguer – La grande ambizione
L’antidoto della memoria
Ma lo sappiamo davvero quale sia oggi il valore politico del ricordo quando la memoria diventa resistenza?
Perché io credo che non si tratti di nostalgia – ossia quella malattia borghese che trasforma la storia in merchandising sentimentale – ma di qualcosa di più profondo e necessario: la costruzione di una memoria collettiva che funzioni come antidoto alla contemporaneità.
Segre ha realizzato un film che sfugge alle convenzioni del biopic politico italiano, rifiutando tanto l’estetica barocca di Sorrentino quanto la psicoanalisi operistica di Bellocchio. Il suo “Berlinguer” è un ipotesi di cinema che parla al presente utilizzando il passato come diaframma morale.
Voglio credere che ciò derivi da quel retroterra documentaristico che permette a Segre di farsi narratore senza mai tradire la propria etica — come dire? — “investigativa”. Il risultato è un film che respira attraverso gli archivi, che fa del montaggio tra fiction e materiale documentario non un espediente estetico ma una filosofia della rappresentazione.
Perché filmare Berlinguer è impossibile e contemporaneamente necessario all’interno di quel paradosso fondamentale che è il tentativo di fare cinema sulla politica italiana del Novecento. Voglio dire: come si filma ciò che esiste essenzialmente come parola, come discorso, come pura astrazione ideologica, se il politico moderno è, per definizione, un corpo immobile che parla (mentre Bresson ci ha insegnato che il cinema, almeno quello del ‘900, vive nel movimento dei corpi nello spazio)?
La soluzione di Segre è inattesa e affascinante: invece di filmare Berlinguer, filma la sua assenza. Invece di ricostruire il PCI, ne evoca il fantasma, così che la distanza storica diventi uno strumento di conoscenza, e costruisce un’opera che si impernia quasi interamente su questa tensione irrisolta tra staticità e movimento, tra parola e azione, tra pensiero e gesto, come dimostra la scena di apertura del film che, nel corpo del segretario del PCI, trova l’immagine sia di un’impossibilità – quella del politico che vuole farsi corpo dinamico – sia di una volontà ostinata di trasformazione.
Certo, ha ragione il dolore di Luciana Castellina che vede ridotta a “santino” un’esperienza vitale e contraddittoria, ma il punto è un altro: Segre non sta cercando di ricostruire il PCI storico, sta filmando il vuoto che ha lasciato. Il suo Berlinguer non è quello vero – come potrebbe esserlo? – ma una proiezione retrospettiva, un’elaborazione del lutto collettivo per una qualcosa che non c’è più, una sottrazione che ciascuno riempie con i suoi ricordi o la sua ignoranza.
In questo senso la performance di Elio Germano non è un lavoro di imitazione – anche se studiata con precisione maniacale – ma di incarnazione spettrale. Germano costruisce un Berlinguer che sta a metà strada tra il documento e il sogno, tra la ricostruzione filologica e l’invenzione poetica. È un corpo metafisico che porta i segni della storia ma anche della sua impossibilità: troppo rigido per essere naturale, troppo umano per essere monumentale.
Ecco allora che l’uso del materiale d’archivio non serve a dare credibilità storica alla ricostruzione ma funziona come se ciò che vediamo fosse un’apparizione fantasmatica, un’interruzione del presente filmico che apre lacerti di un passato irrecuperabile. I materiali d’archivio diventano visioni, frammenti di un sogno collettivo che il cinema cerca di trattenere in maniera disperata e tragica.
E se ha ragione Spiniello quando ci fa capire che è proprio l’archivio a diventare lo spazio dell’utopia possibile, il luogo dove la storia avrebbe potuto prendere un’altra direzione, Segre riesce a non cedere alla nostalgia: filma sogni morti, con la malinconia di chi celebra un funerale necessario.
Si è detto che Berlinguer – La grande ambizione, grazie alla fotografia di Benoît Dervaux, si fa «cromia del lutto politico». La presenza ossessiva del rosso è la traccia tangibile di un’emorragia storica, che lacera la patina realistica della messa in scena. È un cinema che esibisce le proprie cicatrici come parte costitutiva della propria estetica, che sa di arrivare sempre troppo tardi, quando le parole hanno già perso il loro potere di trasformazione e restano solo come testimonianza di un’impossibilità.
Berlinguer – La grande ambizione è quindi un film sul presente mascherato da film storico, che si chiede cosa significhi oggi l’assenza di Berlinguer, perché altro non può fare, ed elabora un lutto necessario, che propone una risposta disperata, che è insieme sconfitta e consapevolezza di un’ambizione impraticabile, ossia fare un cinema politico nell’epoca della sua impossibilità, e perciò dice qualcosa di essenziale sl presente. Ciò che non siamo più e mai più saremo.




