The End: l’apocalisse del presente
A tredici anni da The Act of Killing e a dieci da The Look of Silence, dopo aver esplorato la crudeltà attraverso il cinema documentario, Joshua Oppenheimer torna sul grande schermo e sceglie il musical post-apocalittico per raccontare la crisi del nostro tempo.
Con i suoi precedenti lavori, ha segnato la storia del cinema del reale contemporaneo documentando la banalità del male che si annida nell’essere umano comune attraverso il racconto degli assassini indonesiani, fedeli del dittatore Suharto, esecutori di atrocità inenarrabili trattate con disinvoltura e apparente distacco. Questa volta, però, il registro linguistico è diverso: il cinema del reale tramuta in musical, e il regista statunitense si circonda di grandi attori e attrici per il suo debutto nella fiction e mette in scena l’apocalisse del presente.
UN MUSICAL POST-APOLITTICO SUL PRESENTE
A 25 anni da un disastro non ben specificato che ha segnato la distruzione del mondo, una ricca famiglia borghese senza nomi e dal passato per lo più ignoto, vive rifugiata in un lussuoso bunker sottoterra (la miniera di sale di Petralia Soprana, in provincia di Palermo). Un gruppo eletto di inquilini: il Padre (Michael Shannon), la Madre (Tilda Swinton), il Figlio (George McKay), un’amica (Bronagh Gallagher), il maggiordomo (Tim “Darling” McInnerny), e un medico (Lennie James), trascorrono le giornate in spazi ampi e stracolmi di quadri d’arte, librerie, fiori di cartapesta e mobili antichi in grado di mascherare il senso di prigionia e claustrofobia.
La routine della famiglia, fatta di azioni ripetitive e vuote, viene scossa dall’arrivo inaspettato di una ragazza misteriosa, figura che creperà gli equilibri familiari innescando un processo interiore di presa di coscienza e di riflessione collettiva sui propri dolori, rimorsi, peccati e rimpianti.
In due ore e mezza di musical, l’apocalisse c’è solo fino a un certo punto.
The End ci parla del presente e del senso di colpa che silenziosamente ci corrode dall’interno. Il mondo sta finendo e di fronte all’apocalisse la questione di classe si ripropone puntuale, marcando una netta distinzione tra chi può permettersi un’apparente salvezza e chi, invece, privo di strumenti e vie di fuga, soccombe.
Guerre, cambiamento climatico, disastri ambientali, turbocapitalismo e tutto ciò che compone il grande mosaico della Fine che incombe sulle nostre teste, sono delle fugaci comparsate nei dialoghi tra la Madre, presa dalla cura meticolosa del focolare, il Padre, impegnato nella stesura della sua biografia autocelebrativa e assolutiva, e il Figlio viziato e ingenuo, ignaro di cosa sia la vita fuori di lì.
Perché, in realtà, il tasto dolente sul quale Oppenheimer va a martellare è il dramma interiore che coviamo in un periodo storico fatto di macerie pericolanti e tragedie fuori dal nostro controllo. Il racconto prende forma dal senso di colpa, crudo e nudo, della ricca famiglia borghese, sentimento non banale nel momento in cui si decide di condividere la salvezza con un numero limitatissimo di persone, scegliendo di lasciarne tante altre ad affondare nei drammi del contemporaneo.
Sono i personaggi di Oppenheimer — sereni nella loro agiatezza ma tormentati dal vittimismo nella sua forma più narcisistica, convinti della giustezza del proprio operato — a illustrarci il dramma dell’essere umano odierno nella declinazione di classe. Davanti alla tragedia di un sistema socio-politico-economico che collassa, i ricchi possono scegliere la salvezza posticcia di un bunker esclusivo e inseguire una costosa e presunta longevità, ma il resto del mondo resta fuori, privo di via d’uscita.
DISSOCIARSI PER SALVARSI
Ma oltre alle disuguaglianze di classe, c’è la difficoltà di lettura del presente drammatico per quello realmente è, e il lento dissociarsi da un mondo che non riusciamo a controllare e dalle verità che non riusciamo ad accettare, meccanismo di difesa che ci impoverisce fino a renderci meno umani ed empatici.
Qui The End ci ricorda qualcosa dei primi lavori del regista, The Act of Killing e The Act of Silence: la riflessione sul lento (o del tutto assente) metabolismo del senso di colpa dei protagonisti, sull’incapacità di guardare e riconoscere il dramma delle proprie azioni (scegliere di lasciare i propri cari fuori dal bunker, così come strangolare con il fil di ferro i comunisti e rimettere in scena l’azione compiuta).
L’occhio di Oppenheimer si poggia sull’umanità smarrita che si dissocia dalla crudeltà per tentare la sopravvivenza. Nel caso di The End, la musica accompagna e circonda questo tentativo, perché come afferma lui stesso “[i personaggi] cantano nei momenti di crisi e dubbio, quando la verità della loro situazione riesce a penetrare la bolla in cui vivono.”
Ma il bunker si dimostrerà per quello che è: una promessa mancata dove non c’è spazio per la salvezza, dove il ciclo è destinato a ripetersi con tutte le sue storture come nell’inferno dantesco. Chi era arrivato per rompere gli equilibri, alla fine, verrà fagocitato da quella stessa routine, diventandone parte.
Come aveva intuito bene Matteo Lolletti nella sua riflessione sull’apocalisse, l’apocalisse di The End è qui e ora, ed è anche e soprattuto interiore. La viviamo quotidianamente nei nostri personalissimi bunker: caos emotivi scatenati dal teatro dell’orrore attorno a noi, dal senso di colpa perenne e indecifrabile al quale ci stiamo pericolosamente abituando, dalle relazioni umane che perdono empatia e compassione.
In questo scenario emotivo ed esistenziale, The End si fa specchio. Un musical che non ricorderemo certo per le sue canzoni, ma per la sua capacità di intercettare il malessere e l’angoscia collettiva di un’epoca smarrita.




